in Lo stato a/sociale, Laboratorio politico, Napoli 1998 (1997)

CLASSE, SALARIO, STATO

la merce forza-lavoro per il salario sociale contro lo stato sociale

_________________________________________________________________

 

Gianfranco Pala

 

 

 

 

 

 

Dedicato ai “professori della democrazia sviluppata”,

questi professori dottrinari, ma ignoranti,

soprattutto in economia politica,

questi talenti essenzialmente superficiali

che abusano della loro facondia per spingersi in primo piano

e per atteggiarsi a portavoce del socialismo, che neanche comprendono.

[Marx e Engels]

 

 

Oggi, i “professori della democrazia sviluppata”, o della democrazia “compiuta” (come ora essi stessi sono più propensi a dire), si atteggiano a difensori dello “stato sociale”, proprio nel momento stesso in cui procedono nel demolirlo a picconate. Questa, difatti, è l’essenza di coloro che Marx chiamava i “pro­gressisti conservatori”, ovverosia quei benpensanti borghesi, conservatori per vocazione, ma angustiati da sensi di colpa, ipocrisie filantropiche e minuti interessi particolaristici e localistici, i quali al cospetto della loro crisi intravedono come ultima spiaggia la possibilità di mascherarsi da progressisti agli occhi di lavoratori e “cit­tadi­ni”.  L’apparato politico dei commessi della borghesia è oramai pieno, non solo in Italia, di quella genìa di pro­fessorucoli, riusciti o mancati e aspiranti tali. Se ne conti ed enumeri la loro sgradevole presenza sui banchi parlamentari e sugli scranni governativi, dove dal primus inter pares in giù provengono dalle cattedre, spesso proprio di economia politica. La loro ignoranza in materia è assecondata, peraltro, proprio da altri “ta­lenti es­senzialmente superficiali, che abusano della loro facondia per spingersi in primo piano e per atteggiarsi a porta­voce del socialismo, che neanche comprendono”. Sicché la rappresentanza del socialismo sia consegnata a quest’ultimi, segretari e presidenti di partiti sedicenti comunisti o di sindacati che furono di classe, dalla conge­rie di salotti televisivi in cui il protagonismo è pari alla banalità, entrambi raggiunti grazie a quella medesima ignoranza e superficialità. I professori dottrinari che, per dirla col Mefisto di Gœthe, “in altri tempi se la sareb­bero cavata da sé, ora invece debbono procurarsi dei tirapiedi”, trovando proprio quei tirapiedi evocati da Marx quali “portavoce del socialismo, che neanche comprendono”. A tutti costoro è opportuno dedicare alcune ri­flessioni sul cosiddetto stato sociale.

Per la lotta di classe del proletariato, la questione della funzione dello stato, ancor prima che sia esso a rappresentarsi come “sociale”, richiama la coscienza del significato sociale del salario. Di contro alle forme ideologiche che ne fanno un elemento meramente remunerativo e partecipativo individuale, una tale coscienza si erge sia contro l’immediato economicismo contrattualistico, al quale il capitale vuol circoscrivere la regola­zione salariale, sia contro tutta la complementare ambiguità dell’assistenzialismo, soprattutto statale ma anche sempre più sussidiariamente privato, che il capitale utilizza come ammortizzatore delle lotte stesse. La chiara comprensione di codesta circostanza, in fatto di salario della forza-lavoro, si pone alla base di qualunque pro­gramma - “minimo” nel corretto significato marxiano e marxista - che voglia pretendere, proprio e ancora oggi, a fornire un quadro organico alle lotte della classe lavoratrice entro la società in cui predomina il modo capita­listico di produzione. [Su tale questione si tornerà più avanti e nella conclusione; anche perché essa si connette immediatamente alle condizioni sulla cui base fondare, successivamente soltanto, i termini di una inchiesta specifica: perciò, nel séguito del testo saranno indicate via via, nell’ordine sparso in cui compariranno e con ovvie ripetizioni o analogie, tra due ** tutte quelle voci sulle quali è necessario condurre a tal fine un’accurata indagine di documentazione qualitativa e quantitativa].

Torniamo, dunque, al punto di partenza concettualmente più logico dal punto di vista del proletariato: la questione del salario; essa, in un preciso significato di classe, si pone correttamente come contraddizione della forma specifica di carattere di merce della forza-lavoro. Nella concezione critica marxiana, il salario è da in­tendere esclusivamente nella sua determinatezza sociale, e in termini reali (ossia non nominalmente monetari) e relativi (rispetto alla dinamica della ricchezza della nazione). Il salario - spiegava Marx - “vale non per il sin­golo individuo ma per la specie”. Il salario si concepisce perciò come grandezza sociale innanzitutto perché ri­guarda il proletariato intero come classe. Il salario non si esaurisce pertanto nell’acquisto diretto delle merci di sussistenza con la *spesa del reddito dei lavoratori*, ma è composto anche dall’insieme di *prestazioni colletti­ve* che derivano dalla ricchezza sociale generale.

Dispiace, peraltro, dover attribuire l’aggettivazione di “sociale” al salario. In realtà questo è un pleona­smo, e come tale sarebbe inutile. Il salario, rettamente inteso, si è appena detto seguendo Marx, è già di per sé sociale. Senonché, ciò che costringe a tale pleonasmo è l’abuso ideologico borghese, pienamente condiviso dal­la tradizione sindacalese, del significato di salario come semplice “busta paga”, retribuzione diretta del lavora­tore posto come singolo (giacché neppure serve a molto l’ipotetico riferimento a un *contratto collettivo*, es­sendo questo di poi accuratamente differenziato tra diverse categorie di lavoratori, fino alla diversificazione personale tra lavoratori singoli, proprio per confondere ulteriormente la faccenda).

Peraltro, un diverso e opposto abuso ideologico, altrettanto borghese nella sua concettualizzazione, an­che se versato sul suo lato “sinistro”, dilaga proprio in merito al carattere “sociale” del salario, carattere che non deve assolutamente essere frainteso. Vi sono difatti molti, oggigiorno, che sull’onda delle mode riproduttive e *fuori mercato*, con codesto tipo di dizione intendono, da un lato, forme spurie di *salario o reddito garantito* (“garantito” dallo stato, si intende) mediante prestazioni più o meno accessorie fornite a lavoratori e disoccupa­ti, donne e giovani, cittadini e utenti, e dall’altro, più semplicemente, quella parte del salario globale che va comunemente sotto il nome di *salario indiretto* e *salario differito*, ossia proprio solo la componente salaria­le malamente surrogata dal cosiddetto “stato sociale”.

La questione, così formulata, è mal posta, perché una tal commistione di categorie tra loro incongruenti, conduce a un pasticcio di rapporti di forza, di lotta e di diritti, di assistenzialismo e di elemosina. L’essere so­ciale del salario è invece unicamente conseguenza dell’essere merce della forza-lavoro entro il rapporto di ca­pitale, rapporto sociale di produzione, appunto, per cui il denaro si trasforma in capitale. Più “sociale” di così il salario non può essere. “Queste sono le condizioni del problema. Hic Rhodus, hic salta!”, conclude Marx, al cospetto della sua più grande scoperta scientifica: quella, appunto, del carattere duplice di merce semplice della forza-lavoro.

La confusione sul salario sociale rimanda immediatamente al chiarimento necessario a proposito del significato ultimo di stato sociale (ovvero stato assistenziale o del benessere, welfare state), il quale come si­mulacro del primo tende perciò a sostituirlo quale sua parziale e impropria metafora. Le provvidenze messe in atto attraverso il suo apparato altro non sono che una risposta, parziale e ridotta, deformata come può esserlo un simulacro appunto, una protesi che il capitale fornisce, per il tramite del suo stato, al posto del riconoscimento pieno del salario sociale della classe lavoratrice. In effetti, basti riflettere appena un po’ sulle condizioni politi­che e sociali in cui tali provvidenze vengono attuate.

Per l’insieme dei provvedimenti che solitamente vengono inscritti nell’attività assistenziale sociale del­lo stato, si tratta in genere di decisioni prese, a sostegno della creazione di plusvalore, in una fase ascendente del ciclo di accumulazione del capitale: sia essa relativa alla ricerca di una fuoriuscita dalla crisi, sia essa di in­tegrazione degli insufficienti sbocchi per la produzione alla vigilia della saturazione del mercato. In siffatte condizioni, l’area di spesa garantita dal cosiddetto stato sociale risponde a due esigenze, uguali e contrapposte: da un lato, fa sì che la domanda aggiuntiva di “godimenti” proletari (ovverosia, di *consumi necessari* alla ri­produzione della forza-lavoro) sia coperta con regolarità e certezza dall’intervento pubblico, per il tramite di *appalti e commesse*, in nome dei “cittadini” contribuenti; dall’altro, garantisce che, al di là di tale necessaria intermediazione statale, non si vada nell’estendere la ripartizione della ricchezza generale a favore dei *consu­mi del proletariato* al di là del necessario.

Perciò, quanto appare al senso comune come stato sociale è invece, per l’appunto, la limitazione che il capitale, dal proprio peculiare punto di vista nella sua maschera istituzionale statuale, impone alla rivendicazio­ne di quel salario sociale che rispecchia, al contrario, il punto di vista della classe lavoratrice. Altresì, e preci­samente in grazia di quella menzognera maschera neutra e universalistica, è ovvio che la “conquista” dello sta­to sociale assuma la parvenza di una vittoria del proletariato, proprio perché esso è il punto di mediazione in­terno alla borghesia come approdo del conflitto economico e sociale. Un approdo è codesto, dunque, cui accede lo stato stesso, in nome del capitale, allorché la lotta di classe si faccia più aspra e le condizioni economiche permettano simili parziali “concessioni”, in cambio di armonia sociale e stabilità politica. Si tratta quindi di una risposta politica consensuale, dunque ideologica, all’antagonismo di classe, per indurre l’armonia neocorpora­tiva di contro alla conflittualità. Nessuno ha saputo esprimere una simile opinione meglio di quel campione del neocorporativismo che è Sergio Cofferati, il quale ha scritto di sua mano della “inadeguatezza di una cultura sindacale basata sul conflitto”, tale da dover lasciare il posto a un “regolato confronto nelle relazioni sindacali”, dal momento che “la vecchia guerra tra capitale e lavoro può finalmente considerarsi conclusa”: occultando e facendo ignorare ai suoi “rappresentati” che la violenta e aggressiva strategia padronale in atto, in Italia e nel mondo, è lotta di classe, pienamente agìta dal capitale di contro al letargo proletario.

In tale ottica complessiva, l’intervento richiesto dal capitale allo stato ha perciò due facce. La prima faccia statale dell’imperialismo, nella fase che precede la crisi, sostiene lo sviluppo artificiale della “domanda” interna: la vernice keynesiana si applica qui. Tramite il suo stato, il capitale fa dare alla società solo ciò che può rientrargli valorizzato: do ut des, va bene qualsiasi *spesa pubblica* capace di procurare profitto (strade, ferrovie, telecomunicazioni e altre opere pubbliche, medicine, libri, armi, ecc.); di qui appalti, commesse, tan­genti e corruzione, che non sono l’eccezione ma la regola dello stato borghese, sociale o meno. Se il prodotto in questione non dovesse rendere, impedendo al capitale di valorizzarsi, esso ne scaricherebbe l’onere sul suo sta­to: purché questo, a sua volta, possa fare pagare le spese coattivamente come sovraimposte alla collettività (mediante *tasse* e *debito pubblico*, il che è lo stesso).

L’altra faccia di questa stessa medaglia è quella che fa recuperare indirettamente al capitale quote di plusvalore dal lato dei costi di produzione. Oltre che per il tramite di *esenzioni e finanziamenti agevolati* (per nuovi investimenti e reinvestimenti, aree di sviluppo, ecc.), e *tariffe preferenziali* (energia, telecomunicazio­ni, ecc.), ciò avviene in particolare e soprattutto sul cosiddetto *costo del lavoro*. Proprio agendo sul salario sociale della forza-lavoro, surrogandone le sue componenti di *salario indiretto* (forme varie di assistenza) e *salario differito* (forme varie di previdenza), allorché l’avvicinamento alla saturazione occupazionale impli­chi una corrispondente crescita del “costo del lavoro” stesso, la parte di quest’ultimo a carico delle imprese vie­ne abbassata. Lo stato del capitale è perciò chiamato a pagare quelle componenti del salario di classe che figu­rano come *oneri sociali*, per alleviare i conti del capitale, fornendo “servizî” gratuiti o semi-gratuiti, che altri­menti dovrebbero essere comprati e pagati con reddito, e con reddito salariale in particolare. Ciò costituirebbe una spesa certa per i capitalisti compratori di forza-lavoro.

Lo stato appare così nella sua finzione di socialità universalistica; ma codesta parvenza sociale dello stato borghese si svela semplicemente constatando quale sia la fonte di *finanziamento dei servizî*, cosiddetti sociali. E qui tornano a combaciare le due facce della medaglia, che appunto è la stessa: ovverosia, il tutto ri­torna alla capacità di *superimposizione fiscale* generale, da parte dello stato, la quale, com’è noto, in un si­stema capitalistico imperialistico, incide per il 90% sui redditi da lavoro, soprattutto dipendente (anche con cre­scenti *imposte indirette*). Pagare la produzione di questi valori d’uso collettivi (servizî) con reddito anziché direttamente con capitale, osserva Marx, non è segno di progresso ma di arretratezza. Tutto ciò vuol dire che le quote salariali che i capitalisti risparmiano grazie allo stato “sociale” sono pagate dagli altri lavoratori, median­te un *trasferimento coatto* interno al monte salari, senza incidere sul plusvalore totale, ma anzi accrescendolo mediante un trasferimento in direzione a esso favorevole. Occorre misurare procedure e meccanismi dei trasfe­rimenti ora illustrati. I cosiddetti *contributi sociali* o *oneri sociali* sono per i lavoratori dipendenti, in Italia, i più alti tra i paesi europei, ben più della metà della retribuzione lorda. La somma delle due componenti del sa­lario lordo e dei contributi sociali costituisce ciò che viene chiamato il costo del lavoro globale. Siccome il sa­lario diretto netto è rappresentato dal salario lordo meno le imposte sul reddito (Irpef), la quota prelevata e ge­stita tramite lo stato incluso il prelievo fiscale  - per fornire l’insieme delle prestazioni del cosiddetto stato so­ciale sotto forma di salario indiretto e differito - ha raggiunto perciò una quota pressoché pari al salario diretto netto. Questa è la dimensione della questione salariale.

Per completarne perciò la corretta comprensione occorre ancora: i. valutare la *dinamica del salario in­diretto e differito*, in relazione al salario diretto*, con tutte le sue implicazioni pratiche; ii. stimare l’anda­mento del potere d’acquisto reale* dei redditi da lavoro, considerando il movimento di *prezzi e tariffe*, e l’effettiva *incidenza del fisco* (anche attraverso la considerazione delle diverse provvidenze dell’*assisten­zialismo* di fronte, però, all’*evasione fiscale*); iii. ripartire il peso dei disoccupati, o meglio delle cosiddet­te *non forze di lavoro* (esercito industriale di riserva), considerandone l’incidenza sull’intero monte salariale; iv. considerare la regolazione effettiva del *tempo di lavoro* di fatto, in quanto la generale *organizzazione del lavoro* (innanzitutto il *lavoro straordinario*, l’articolazione giornaliera diurna e nottur­na, settimanale feriale e festiva, mensile, annuale, ecc., insomma la *flessibilità*) incida sul corrispettivo sala­riale reale della classe; v. deflazionare l’andamento nominale dei salari monetari, verificandone il potere d’ac­quisto per l’effettiva *composizione merceologica* e *localizzazione territoriale* (regionale e urbana), e pon­derandone poi la dinamica in relazione all’aumento della “produttività sociale” o della *crescita del pil*; in quest’ultimo punto rientrano anche le considerazioni sulle forme della *proprietà pubblica* di contro a quella privata, commisurandole tuttavia unicamente agli effetti sul valore della forza-lavoro, senza apriorismi e ideo­logismi improprî (ovverosia, senza quegli atteggiamenti perniciosi relativi alla statalizzazione a ogni costo, al­lorché lo stato sia nelle mani più reazionarie, al cui proposito Engels e Marx parlavano di “for­malismo” e “su­perstizione” di stato).

 

Il quadro generale di riferimento per lo studio, la valutazione e l’indicazione dell’obiettivo del salario reale sociale di tutta la classe si può provare a costruire dalla scomposizione e valutazione di tutte que­ste voci, appena indicate. Ciò richiede quel lavoro di documentazione, dianzi accennato, che precede il comple­tamento di una progettata iniziativa di “inchiesta”.

i. Se, attraverso lo stato sociale, cosiddetto, quello stesso “stato” borghese restituisse effettivamente alla “società” ciò che ha prelevato - ossia fornisse ai lavoratori, come classe, *prestazione di servizî* in materia di sanità, previdenza, assistenza, scuola, abitazioni, trasporti, comunicazioni, energia, ecc. - le quote crescenti di salario a essi sottratte rimarrebbero, o ritornerebbero, a far parte integrante del salario sociale in quanto valore globale della forza-lavoro.

Qui interviene la nota questione dell’impiego fraudolento di una gran parte dei *prelievi contributivi* (i cosiddetti oneri improprî, pari al 15% del costo del lavoro globale), che sono percentualmente operati sui salari per scopi previdenziali, ma che invece vanno a finanziare servizî “universali” come quelli meramente assisten­ziali (per sanità, maternità, asili, assegni familiari, ecc.), erogati a tutta la popolazione indistintamente e non so­lo ai lavoratori che li pagano. Non per niente i timori di tensioni sociali provocate da tali ritardi, rispetto all’o­mologazione internazionale, hanno fatto sì che la riforma fiscale, che è nel programma del governo dell’Ulivo, comprenda tra l’altro anche la riconduzione alla fiscalità generale (Irpef e Irap) della spesa sanitaria. Tuttavia, ancora oggi alcuni oneri (figuranti come ritenute sul salario lordo) rappresentano un vero e proprio *apparato parafiscale*, in quanto affluiscono nelle casse dello stato come una sorta di imposte nascoste, fittizie, che non fanno capo cioè ad alcuna prestazione (orfani, case per lavoratori, ecc). Si tenga presente, per di più, che code­sta leva parafiscale sul salario non è neppure formalmente un’imposta progressiva, al contrario cioè di quelle sul reddito, ma è addirittura regressiva (cioè, che colpisce inversamente all’aumen­tare del reddito, ancor peg­gio delle imposte indirette tipo Iva), ed è gravante quasi esclusivamente sulla componente salariata della classe lavoratrice.

Il risultato di tutta codesta truffa e mistificazione è enunciato “ufficialmente” dall’Inps: in appena otto anni sono stati stornati (“rubati”, si dice in italiano!) oltre 200 mmd di lire dai *fondi patrimoniali*, accantonati sui prelievi a carico dei lavoratori; ai quali vanno aggiunti circa altri 50 mmd di *evasione contributiva* e l’il­legittimo impiego speculativo (magari nelle rischiose borse del sud est asiatico) di centinaia di migliaia di mi­liardi dei fondi riservati per le *liquidazioni* (tfr, trattamento di fine rapporto). [Per un approfondimento anali­tico di tutte le questioni qui indicate, e anche di altre che saranno affrontate più avanti, si rimanda complessiva­mente agli opuscoli della collana di Comunismo in/formazione, edita da Laboratorio politico, Napoli 1996-97, e in particolare ai nn. 1, 2, 3, 5, 9, 10, 11, relativi ai temi dell’inchiesta, delle pensioni, del salario sociale, del neocorporativismo, del programma minimo, delle classi e del terzo settore].

La rivendicazione del controllo diretto dei fondi di assistenza e previdenza da parte dei lavoratori è an­tica: per Marx e Engels ha costituito un motivo conduttore delle lotte, fino alla sua indicazione nel programma minimo del partito operaio francese, con l’esclusione di ogni intromissione padronale. Oggi, tuttavia, essa non è rivolta solo contro l’ingerenza dei padroni e delle loro istituzioni finanziarie, bensì anche contro i parvenus arrampicatori dei sindacati istituzionalizzati neocorporativi, che in tali fondi vedono un grosso boccone come merce di scambio per il loro consenso obbediente agli interessi borghesi. In questo senso è impor­tante che la classe proletaria in quanto tale possa esprimere, dal suo proprio punto di vista e con i suoi proprî caratteri di parte, una reale solidarietà di classe, da imporre come “dovere uguale” a tutte le classi, in aperta contrapposi­zione ai simulacri di “solidarietà” istituzionale.

La fusione dei criteri a base economica di un tale programma di lotta con quelli relativi agli aspetti so­ciali e politici può porre, in questo quadro, un concetto di solidarietà che perciò muova realmente dall’identità di classe, e cioè dal carattere di merce della forza-lavoro, con tutto ciò che comporta in funzione del salario sociale. Così, si può pensare al ripristino in chiave moderna di un “mutuo soccorso” della classe per se stessa, attiva e in riserva, attraverso una completa autogestione dei fondi accantonati, in quanto parte integrante del sa­lario globale della classe. Ciò non ha nulla a che vedere, però, con un “regime mutualistico” di presunta solida­rietà di cittadinanza, frutto di astratto filantropismo e perciò assai lontano da ogni progetto comunista.

Non si tratta, cioè, di riproporre vecchie utopie di memoria fourierista e proudhoniana, né come “volon­tariato” (cattolico o altro) né come luogo extra-istituzionale (anarchico) di aggregazione sociale. Una simile de­riva è rappresentata da quello che oggi vorrebbe essere per alcuni, “asinistra”, il cosiddetto *terzo settore*, qua­si come generalizzazione di “centri sociali”, “sistemi di scambio locale”, “zone temporaneamente autonome”, e altre consimili amenità, arricchite da lavori socialmente poco utili e assai meno dilettevoli, vagheggiate come forme post-anarchiche. La sola possibile riproposizione aggregativa in tal senso, come si è detto, da parte dei lavoratori può vertere più direttamente e materialisticamente sull’*autogestione dei fondi di assistenza e previ­denza* che, proprio in quanto parte del salario sociale globale di classe, ha valenza generale per trasmutarsi, da elemento economico, in obiettivo di lotta e rivendicazione politica.

Soltanto una simile ripresa della forma antagonistica di quella esperienza può essere perciò in grado di comportare una significativa autogestione, in termini diversi e sotto varie prospettive. Integrazioni di reddito, ripartizione di salario differito (in quanto pensioni), ricerca e definizione di posti e condizioni di lavoro (per giovani, immigrati e altri emarginati), assistenza parasanitaria (non sostitutiva ma di sostegno e convogliamen­to verso quella pubblica), interventi di protezione e consulenza (anche legale) su questioni economiche, sociali, territoriali, ecc., possono costituire tante tessere di un mosaico per riempire il “cartone” di un programma di classe. Inutile proseguire l’elenco. Tra l’altro, una solidarietà nel senso anzidetto fa piazza pulita di tutte le mi­stificazioni del *volontariato a sottosalario* e a consimili presunte *attività senza fini di lucro* (il cosiddetto non profit, i “lavori di cura” domestici e i cosiddetti *lavori socialmente utili* in genere).

ii. Il salario della classe lavoratrice è legato alla fissazione di *prezzi amministrati o politici e tariffe*: per generi di uso sociale e popolare, dalla *casa* alle tariffe per servizî, *energia, acqua, trasporti, comunica­zioni, ecc.*; questo è il medesimo àmbito nel quale soltanto rientrano anche temi classici come quelli della *as­sistenza sanitaria*, della *sicurezza lavorativa e sociale*, e dell’*istruzione* garantita, altrimenti relegati nel cahier des doléances di ogni parte politica. Qualsiasi partito politico, dalla sinistra alla destra del fronte bor­ghese, inserisce nel proprio programma promesse elettorali sulla cui base, in una forma o nell’altra, si dichiari di garantire e assicurare simili interventi di protezione sociale. Ma soltanto in un programma di classe, an­corché minimo, tali rivendicazioni entrano come parte costitutiva del salario sociale globale: il dirsi comunista si vede anche da qui, dalla assoluta distanza tra la sinistra di “classe” e la sinistra democraticistica “sviluppata” e “progressista” che sempre più si avvicina alla destra “conservatrice”.

Solo in un contesto di lotta di classe anche la conflittualità sul *fisco* e contro l’*evasione* finisce di rappresentare niente più di una mera bandiera ideologica di denuncia moralistica. L’evasione fiscale (oltre a quella contributiva) è ormai spudoratamente riconosciuta e comunicata dalle stesse fazioni borghesi in lotta tra loro, e stimata perfino dai commercialisti in una cifra indefinibile compresa tra i 300 e i 400 mmd annui di red­diti non dichiarati, in Italia. Al pari delle improbabili promesse elettoralistiche sulla protezione sociale per i “meno fortunati” (come con ipocrita eufemismo i benpensanti borghesi amano dire), anche quella sul fisco si riduce a “litanìa democraticistica” priva di attuabilità, posti i rapporti di forza fondati sui rapporti di proprietà e di produzione esistenti. Il fisco, infatti, è un’esca buona per tutti, di facile presa per ogni parte politica, agitata perfino da gente come Bossi o Berlusconi. Ma attraverso la politica fiscale non si cambiano quei rapporti di proprietà. Cionondimeno, la forma di *imposizione diretta e progressiva* su redditi e patrimoni è sempre un obiettivo complementare, da inserire in un programma di lotta imperniato sul salario, e dunque sul *reddito di­sponibile* per la classe lavoratrice e gli strati popolari, purché organico e complessivo: avvertendo, con Marx, che attraverso il sistema delle imposte non si incide alla radice la sperequazione dovuta allo sfruttamento.

Per contro, una politica fiscale e di protezione sociale, demagogica e populistica, può accedere facil­mente alla “concessione” di un *salario minimo*. Ma, come notò Marx, già la “legge sui poveri” (nel XVIII se­colo in Inghilterra) precorse l’obiettivo con cui “sotto forma di elemosina la parrocchia integrava il salario no­minale fino alla somma minima richiesta per la pura e semplice vegetazione del lavoratore”; un tale tipo di in­tervento è sempre servito per far sì che, “nella proporzione fra il salario pagato e il deficit salariale compensa­to dalla parrocchia, il salario s’abbassi al di sotto del suo minimo”. Giacché gli interventi di protezione sociale si tengono, per definizione, ben al sotto del più basso livello salariale contrattuale, con simili provvedimenti di “integrazione” salariale, ancora oggi “parrocchia” e “stato” (sociale), per grazia del *volontaria­to* e del cosid­detto *privato sociale*, agiscono nel nome del capitale: senza che, pure nella “sinistra estrema”, i fautori del *reddito o salario minimo garantito* (o di “cittadinanza”, secondo le variegate sfumature) si avvedano, o avver­tano i lavoratori, dell’imbroglio e dei rischi sottostanti.

Purtroppo, l’ideologia dominante, che vigliaccamente fa leva sull’insopprimibile spinta alla solidarietà umana tra poveri, è permeata così a fondo nelle file del proletariato e delle sue organizzazioni da vanificarne, consensualmente, l’identità antagonistica in favore di una armonia religiosa, così bene rappresentata in Italia (e altrove) dalla chiesa cattolica. Il risultato è di rivolgere le azioni del proletariato contro se stesso, peggiorando­ne le condizioni generali di vita con le sue stesse mani. Per quanti “asinistra” ancora non si avvedono delle insi­die di una tale trappola basterebbe assai poco per capire l’intera faccenda: da un lato, serve recuperare un mini­mo di analisi scientifica dei rapporti capitalistici di produzione intorno al carattere di merce della forza-lavoro e del suo valore, di contro alle opinioni del socialismo utopistico e piccolo borghese; dall’altro, è opportuno avere una più immediata conoscenza storica, che mostrerebbe senza ombra di dubbio l’origine sociale di tal genere di protezioni e provvidenze, tutte inscritte nell’interessato filantropismo borghese, via via mascherato da proudhonismo, socialdemocratismo, fabianesimo, laburismo, keynesismo, fino alle rinnovate recenti sortite del­la serie gorz-rifkin-latouchiana (che tanta eco hanno sciaguratamente trovato anche in Italia).

iii. La vastissima diffusione di forme di lavoro irregolare induce la borghesia mondiale a progettare la “riemersione” della cosiddetta “economia sommersa”. Quest’ultima, in quanto tale, non può essere affrontata keynesianamente con le categorie della disoccupazione, giacché attiene ad attività fatte realmente e assai profi­cue per il capitale; si tratta infatti di funzioni lavorative, ancorché estremamente precarie sottopagate e segnate appunto dalla massima irregolarità, che caratterizzano in maniera rilevante la dinamica interna e internazionale del proletariato. Marx individuò, quale forma della sovrapopolazione relativa più peculiare al capitalismo indu­striale moderno, la *componente stagnante* dell’esercito industriale di riserva “che costituisce una parte dell’esercito attivo”, un serbatoio inesauribile di forza-lavoro disponibile. Le sue condizioni di vita e di lavoro, al di sotto del livello medio normale della classe lavoratrice, rappresentano - direttamente sul mercato, analoga­mente a quanto fa indirettamente il salario minimo garantito - il livello di concorrenza coercitivamente intro­dotto dal capitale tra le file del proletariato. In effetti, le caratteristiche di questa componente del *lavoro irre­golare* sono il massimo tempo di lavoro e, appunto, il minimo di salario che funzionano da regolatori di riferi­mento per l’intera classe (ecco, appunto, dove va a finire la bella trovata liberal-social-democratica proudhonian-keynesiana del salario minimo!).

 Per valutare il peso della componente stagnate del proletariato sul salario sociale di classe occorre se­guire la dinamica ciclica dell’espulsione dei lavoratori dai *settori in crisi* della grande industria e della gran­de agricoltura capitalistica, e della rovina dell’artigianato e della piccola industria di *subfornitura* a causa del dominio delle catene imperialistiche del capitale transnazionale. Il suo volume si estende con l’ac­cumulazione e costituisce un elemento della classe lavoratrice che si riproduce e si perpetua, e che in proporzione partecipa al complessivo *aumento della classe lavoratrice* in misura maggiore che non gli altri suoi elementi. La Com­missione delle comunità europee ha stabilito di concludere entro il 1998 le sue rilevazioni sul lavoro ir/regolare e risolvere “il problema della quantificazione dell’economia sommersa”. Il pil, si dice, deve rappresentare il ri­sultato complessivo di “tutte” le attività produttive (escluse quelle a carattere criminale). Dalle consultazioni europee risulta che “l’Italia appare come uno dei paesi più avanzati nel campo del­la ricerca relativa alla quanti­ficazione dell’economia sommersa e irregolare”. L’economia italiana sommerge una “forte presenza di attività produttive di piccole dimensioni, spesso non registrate, e un mercato del lavoro in cui la quota di lavoratori non regolari, nascosti al fisco e agli istituti di previdenza, o non osservabili direttamente dalle statistiche, è alta e tendenzialmente crescente nel tempo”.

Le tipologie dei *lavori ir/regolari* (tempo determinato, tempo parziale, interinale, formazione, nuovo apprendistato, ecc.) sono quelle varate nel “pacchetto Treu” (sulla ricetta del Fmi approvata dall’Ue a Essen). Dall’Eurostat sono considerate quattro tipologie di lavoratori irregolari: fuori legge; non dichiarati; immigrati clandestini; secondi lavori. Perciò “l’occupazione non regolare, che comprende le quattro categorie sopra cita­te, non può essere identificata con la quantità di lavoro che si sottrae agli obblighi fiscali e contributivi (rappre­sentata soprattutto all’interno della prima categoria e, ovviamente, della terza)”, ma è costituita da un numero ben più grande di casi. Le definizioni stabilite in sede internazionale individuano anzitutto la “posi­zione lavora­tiva” derivante da un qualsivoglia rapporto di lavoro (precario, stagionale, saltuario, parziale, ecc.), il cui nume­ro complessivo viene poi trasformato in numero di unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (sinteticamente ula).

Ora, limitandosi all’Italia, già si sa che proprio nell’industria (ormai con quasi 1,5 mln di lavoratori, qui quasi tutti a tempo pieno), in particolare tessile e abbigliamento, alimentari e, soprattutto, edilizia, si è avuto il più rilevante aumento percentuale di ula: dal 1980 a oggi si è avuto un aumento del 3,7% (da 14,3% a 18%, in media nazionale, ma col 13% al nord-centro e il 42% al sud, ovviamente), con una diminuzione esattamente corrispondente di “regolari” (da 85,7% a 82%)! Nei servizi vendibili (con quasi 4 mln di “posi­zioni”, essendo qui dominante il doppio lavoro) svettano i settori trasporti e turistico alberghiero. Tuttavia, il primato assoluto (non chiaramente quantificato) rimane ai servizi “bassi” (non vendibili) e all’agricoltura, col nuovo caporalato per immigrati clandestini. In conclusione si ha che nel 1996, in Italia, poco meno di 11 mln di lavoratori (“posizioni lavorative”) equivalevano ad appena 5 mln di ula, ossia meno di mezzo posto di lavoro a persona. Ciò ha portato la media nazionale di ula, pur se in crescita modesta di un punto percentuale in vent’anni, sopra al 22% contro meno del 78% di regolari: niente male per il pluslavoro non pagato, alias plusvalore, assoluto e relativo!

In una situazione sociale internazionale in cui sia precario tutto il lavoro salariato - a séguito della so­vra­produzione mondiale generalizzata che distrugge capitale e, nella sua forma di “capitale variabile”, la forza-lavoro - ogni ipotesi “alternativa” di occupazione è fittizia velleitaria e fuorviante. Come si può discettare a cuor leggero di *lavori socialmente utili* e quant’altro possa corrisponder loro in analoghe forme illusorie di occupazione salariata? Se non ci si chiede quale sia la fonte del finanziamento e pagamento di simili tipi di la­voro, ogni fuga oltre la sfera del mercato ne occulta inevitabilmente il reale carattere. Essi rimangono mal pa­gati con salario (*sottosalario*), dunque sussunti sotto la forma della merce, ossia del mercato ancorché non capitalistico, magari gravante su quote del reddito (nazionale) e non del capitale. Il capitale delega lo stato che, per sostenere codeste spese, viene a trovarsi nelle condizioni di dover procedere a una “trasforma­zione coatta di una parte del plusvalore o del plusprodotto del paese” - come dice Marx. Una cosa è certa: non sono le occasio­ni di lavoro, le cose da fare, che mancano, ma il denaro che il capitale vuole dedicare a ciò, direttamente o indi­rettamente tramite lo stato.

In una siffatta situazione, anche le chiacchiere sul *lavoro e produzione “immateriale”* nulla dicono sul significato di “lavoro salariato” dal capitale. Esse, in effetti, si riducono a un altro parlar vuoto, giacché si sof­fermano sull’inessenziale (la forma empirica del lavoro erogato e del prodotto ottenuto) anziché su ciò che è ri­levante socialmente: ovverosia, la forma sociale del rapporto di capitale che anche questo tipo di lavoro e pro­duzione, al pari di quello materiale e fisico, deve assumere. E nel gorgo dell’empiria, vien dato libero sfogo all’attrazione delle nuove procedure e tecnologie informatiche, e alla loro relativa estensione quantitativa che alimenta l’ulteriore diffusione delle forme irregolari di relazioni lavorative. Non che il problema della cosiddet­ta immaterialità delle attività basate sul lavoro mentale non esista o non abbia ricevuto un discreto incremento da un secolo in qua. Ma, qualitativamente e concettualmente, di esse nulla è mutato dall’epoca di Arkwright e di Watt, nella misura in cui esse rientrino nella sottomissione reale del lavoro al capitale, per la sua autovalo­rizzazione e accumulazione, anche per il tramite di acquisizione crescente di conoscenze (scienza); e ciò avvie­ne sia in quanto lavoro salariato direttamente incorporato nel valore-capitale, sia pure come lavoro formalmen­te indipendente di progettazione e consulenza, funzionale al raggiungimento dello stesso risultato.

Forse, proprio per questi stessi motivi che rimandano a un’errata concezione del concetto di “materiali­tà”, prima di aver dato l’addio al proletariato e al lavoro salariato, gli ideologi del nuovismo avevano già fatto cadere con noncuranza anche la distinzione tra *lavoro produttivo e improduttivo* Quest’ultimo è tanto più ri­levante quanto più il capitale si avviti nella sfera della circolazione, la quale si rovescia amplificata anche in quella del reddito, soprattutto pubblico (entrate e spese dello stato). Ma, appunto, quegli stessi “professori dot­trinari”, disconoscendo valore e plusvalore, non sanno più distinguere il lavoro che è produttivo da quello che non lo è; sicché lo si possa confondere, in una grigia notte di mucche grigie, col suo essere salariato, anzi “di­pendente”; al che altri, al polo opposto, cadendo nell’errore simmetricamente contrario, identificano salariato con produttivo, esecrando e demonizzando l’altro, l’improduttivo come non proletario.

Entrambe le parti, perciò, continuano a ignorare: in primo luogo, che cosa sia lavoro salariato, in quanto *lavoro dipendente realmente* dal complessivo comando del capitale come forma del rapporto sociale domi­nante; in secondo luogo, quali forme esso assuma in relazione al processo complessivo di riproduzione del ca­pitale, in quanto produttivo o improduttivo di plusvalore. Pertanto è massima la confusione sul lavoro falsa­mente autonomo o indipendente, perché esso non è giuridicamente dipendente, come quello che oggi i leculei chiamano *lavoro parasubordinato*; ma anche su quello strato di lavoro salariato che è forma caratteristica, qui, anche del lavoro prestato alle dipendenze dello stato (che è stato del capitale, appunto). Tutti costoro - pro­fessori dottrinari ma ignoranti, insieme ai talenti “socialisti” essenzialmente superficiali - perciò volutamente ignorano quale debba essere la proporzione tra lavoro produttivo e improduttivo, tra produzione e circolazione, sotto le leggi del capitale e del suo plusvalore.

iv. La questione della riduzione dell’orario di lavoro, o, meglio, della complessiva regolazione del tempo di lavoro*, può porsi solo in strettissima connessione a tutto quanto precede, a partire dalla contradditto­rietà della merce forza-lavoro. E solo in questo quadro generale essa non si sminuisce a pratica sindacale azien­dale, che pure può rivestire una grande rilevanza economica. Per i lavoratori direttamente impiegati in un attivi­tà di produzione o di circolazione, lottare per ottenere una *riduzione dell’orario di lavoro* (giornata, settima­na, ecc.) e una più favorevole organizzazione del *tempo di lavoro* complessivo, sul loro particolare posto di lavoro, significa cercare di riuscire a migliorare le proprie condizioni di lavoro e di vita. La contrapposizione al proprio padrone è sempre di primaria importanza, e può assumere anche un significato esemplare per altri lavo­ratori. Perciò è assai utile conoscere nei dettagli delle situazioni concrete particolari le modalità temporali dell’organizzazione del lavoro; e se tali conoscenze non fossero sufficienti un’inchiesta specifica potrebbe ri­sultare proficua.

Ma è la generalizzazione della rivendicazione sull’organizzazione del tempo di lavoro all’intera classe dei salariati, in una data economia, che le fa assumere il carattere di lotta politica, come con esattezza indicava Marx ai delegati dell’Internazionale. Questa rivendicazione di classe comporta un livello di lotta molto alto, e non può essere assunta come “concessione”, soprattutto se si evita di confonderla demagogicamente con il pat­teggiamento da gestione neocorporativa e solidaristica della disoccupazione, voluto dai padroni, come “ammor­tizzatore” sociale a costo zero. In una situazione di crisi prolungata, come l’attuale, riduzione dell’orario di la­voro (lo si è visto in decine di esempi pratici, a cominciare dal prototipo dell’accordo neocorporativo tra Vol­kswagen e Ig-metall, con la benedizione di Kohl) diventa sùbito espressione metaforica, e neppure tanto!, di ri­duzione dell’occupazione e del salario.

Sicché, essendo la riduzione d’orario un obiettivo politico di dura lotta, è verosimile ritenere che esso sia perseguibile compiutamente solo in una fase in cui i rapporti di forza siano favorevoli al proletariato e la sua lotta di classe contro classe sia in ascesa e si svolga con le modalità d’attacco. Per queste semplicissime ra­gioni, alcune conseguenze tanto care “asinistra” sono del tutto illusorie. Aver evitato di porre questa rivendica­zione nella fase alta dello scontro (fine anni sessanta), da parte degli apparati riformistici, era già il chiaro sin­tomo di un’idea sbagliata sul significato della riduzione d’orario. Essa, infatti, oggi viene riproposta solo in chiave schiettamente difensiva, a copertura di una ritirata (più strategica che tattica) che si fa schermo dietro vaghe concezioni solidaristiche. Contrattare la riduzione d’orario, come se si trattasse di un enorme insieme di “contratti di solidarietà”, per spartirsi il poco lavoro e l’ancor meno salario, significa semplicemente fare il gio­co dei padroni. E la vecchia cara tesi della “scala mobile delle ore di lavoro” non fa che confermare quanto ap­pena detto, giacché proprio essa Trotsky la riferisce a una fase di transizione, laddove il proletariato eserciti la sua dittatura o abbia almeno grandi capacità di controllo. Ma oggi?!

Del resto, in una situazione di crisi irrisolta, con il proletariato che batte in ritirata e con la borghesia che continua a correre in rottura prolungata, non è certo con la riduzione d’orario che si creino nuovi posti di lavoro. Marx è assolutamente chiaro: in tali fasi critiche del ciclo di accumulazione del capitale, la domanda di più lavoro da parte del capitale, che eventualmente faccia séguito a processi di ristrutturazione per esso riusciti, non si traduce in domanda di più lavoratori, ma semplicemente in prolungamento e intensificazione del lavoro di quanti siano già occupati. E questa osservazione non è che sia vera “perché l’ha detto Marx”, ma perché ba­sta guardare alla realtà quotidiana e perfino alle statistiche ufficiali per averne conferma: a fronte di una dimi­nuzione dell’*occupazione industriale* del 10% in due o tre anni, l’aumento del *lavoro straordinario* di fatto è anche maggiore. Viceversa l’“asinistra illusionista” è convinta del contrario: non solo chiede alla filantropia del capitale di spartire il poco lavoro tra tutti, ma è sempre più attraversata e pervasa dalla convinzione che or­mai lo sviluppo economico (capitalistico, s’intende) non sia più in grado di creare occupazione, sicché l’unico passepartout per aprire la porta del lavoro per tutti sia appunto la riduzione d’orario. L’errore è doppio.

In primo luogo, non si conoscono i dati, peraltro noti, dello sviluppo stesso; basterebbe fare pochissimi facili conti per valutare le conseguenze cumulative negative di trent’anni di crescita mondiale dimezzata rispet­to al ventennio precedente; pure in presenza di un’intensificazione di capitale e tecnologia, uno sviluppo della produzione a un tasso composto del 3% superiore a quello che si è avuto avrebbe creato una tale mole di attivi­tà da determinare semmai un’opposta situazione insostenibile per il capitale. E, in effetti, la crisi da sovrapro­duzione significa proprio questo; il che, però, conferma che disoccupazione, sottoccupazione e riduzione dei salari (esercito industriale di riserva, per dirla meglio) sono solo conseguenze e forme della crisi: sicché solo la fuoriuscita dalla crisi può dar loro una risposta adeguata, e non la riduzione d’orario in stato di debolezza croni­ca. La legge delle dieci ore (nel 1850) fu salutata come una disgrazia dagli industriali (la famosa “ultima ora”, cui Senior attribuiva l’intero profitto) e non fece aumentare affatto l’occupazione: cosa che avvenne però sùbito dopo solo col “meraviglioso sviluppo delle grandi industrie fra il 1853 e il 1860”, come ebbe a osservare Marx, e che “colpì anche l’occhio più stupido”. Oggi, evidentemente, ci sono occhi talmente stupidi da non essere col­piti da alcuna evidenza. Il problema è, semmai, di capire se e quando da oggi il capitale possa riprendere i pre­cedenti ritmi di crescita.

Ma, allora, è proprio qui che sta il secondo errore dell’asinistra sulla riduzione d’orario. Adagiandosi sul­l’errata convinzione appena esposta, è una banale conseguenza far scivolare la querelle sulla riduzione d’o­rario a parola d’ordine di una fase di crisi in una situazione di debolezza. Da tema d’attacco essa diventa sim­bolo di una linea difensiva per la spartizione della miseria. La dinamica della relazionalità sociale viene capo­volta: il becero sindacalismo, assurto anche a dirigenza politica, che sta dietro a quella linea difensivistica, ha sperperato a suo tempo il fugace momento di forza della classe lavoratrice, contrattando allora quasi esclusiva­mente lo scambio della forza-lavoro ai danni delle lotte sull’uso della forza-lavoro, di cui la regolazione del tempo di lavoro è elemento centrale. Cosicché la lotta politica necessaria per perseguire quell’o­biettivo, che non riguarda solo le modalità lavorative ma anche le condizioni di vita, è stata completamente dissipata.

“La limitazione della giornata di lavoro è una condizione preliminare, senza la quale ogni ulteriore ten­tativo per il miglioramento e l’emancipazione deve considerarsi infruttuoso”: così Marx dava le “istruzioni ai delegati” della prima Internazionale. Ora, da obiettivo di sì grande importanza, preliminare e centrale rispetto a ogni altra lotta, l’intera faccenda è finita nelle mani di clochards della politica, pretesi rappresentanti dei lavo­ratori che sono “elementi tutt’altro che pericolosi e rivoluzionari, anzi - per dirla con Engels - per lo più perso­ne moderate e onorate, rispettose del trono e dell’altare, che non hanno mai fatto paura a nessun governo”. In­somma, non basta che la musica sia bella e sublime, bisogna pure saperla suonare assai bene: invece, si è arri­vati alla condizione di chi crede di poter affidare l’esecuzione del “clavicembalo ben temperato” alla pianola meccanica di un cerretano ambulante.

Per tali ragioni, è soltanto la presenza di una forte lotta politica di massa a creare quel contesto in cui si possa inserire ragionevolmente anche la sistemazione legale della materia. Ma la regolamentazione giuridica che il proletariato, con una battaglia vittoriosa, potrebbe strappare allo stato borghese riguarderebbe, come indi­ca lo stesso Marx, piuttosto una legge sulla limitazione della giornata di lavoro (o settimana, mese, ecc.), in cui siano indicati non solo la durata, ma, per non vanificare il tutto, anche i tempi di inizio e fine del lavoro, l’e­sclusione di norma del lavoro notturno, i riposi festivi, ecc. Si tratta cioè di “limitazione” legale e non di “ridu­zione”, la quale ultima cosa - entro i limiti massimi legali - spetta alla contrattazione tra venditori e compratori della forza-lavoro.

Così, dunque, sta oggi la faccenda. E non sta certo gran che bene. Perciò si è detto che la sola possibilità residua, ora, di ridare corpo alla lotta sulla regolazione del tempo di lavoro è la sua collocazione come parte in­tegrante della lotta per il salario sociale; dunque anche negli inevitabili termini difensivi, certamente non “scel­ti” dai lavoratori, ma imposti dalla situazione data. Anzitutto, a cominciare dalla difesa a oltranza del *salario a tempo*: questa forma del salario, che pure è già un primo pernicioso occultamento del valore e del prezzo della forza-lavoro, tende sempre più a essere dismessa. Il capitale, ogni volta che gli sia possibile, lancia contro co­desta prima forma di esso l’invadenza crescente del *salario a cottimo*: seconda forma mol­to più adeguata al moderno capitale, che variamente la maschera da *partecipazione* e quant’altro. La borghesia e i suoi profes­sori sicofanti sanno che è meglio non parlare di *cottimo* e non chiamarlo col suo nome; è sufficiente che ri­manga fermo il suo carattere fondamentale di pagamento in base al rendimento del lavoratore (ormai lavoratore collettivo) anziché al tempo di lavoro.

La cosmica *flessibilità* del lavoro e del salario poggia su queste rigide basi del capitale. Cosicché, con questa operazione di sostituzione di forma del salario, in corrispondenza dell’opportuna riorganizzazione capi­talistica del lavoro, verrebbe a mancare addirittura il termine di riferimento cui commisurare il salario: il tem­po, appunto. Una volta operata questa prestidigitazione, il capitale può pure fare bella figura “consenten­do” che si parli e si disputi di “orario di lavoro”, ridendosela intanto sulla crescente irrilevanza pratica di un “orario” quale che sia. Il problema del tempo rimane per esso centrale solo per ciò che riguarda la sua organizzazione di produzione e circolazione. Ma, per quel che concerne il rapporto di lavoro, esso si dilegua nel nulla. A proposi­to della “legge delle 35 ore” settimanali, basta fare un calcolo (qui indicato a titolo del tutto esemplificativo e approssimativo; non si tratta cioè di una stima effettiva): su 20 mln di lavoratori, se si esclude la maggior parte del pubblico impiego (già regolato da altre strutture d’orario), il lavoro in imprese con meno di 15 addetti, il la­voro atipico (tempo parziale, stagionale, formazione, e via con Treu), il lavoro parasubordinato, ecc., rimango­no non più di 4 mln di lavoratori con contratto collettivo nazionale di lavoro cui potrebbe applicarsi la legge; ma se il salario è sempre più di frequente spostato verso elementi di *cotti­mo neocorporativo* (i chimici insegna­no), vincolandolo al rendimento per una sua quota assai di molto superiore all’eventuale riduzione “legale” d’o­rario, che sarebbe di poco maggiore del 10%, una siffatta legge non riguarderebbe forse più nemmeno 1 mln di lavoratori. Se poi si considera che 40 ore x 35 anni fa esattamente lo stesso risultato di 35 ore x 40 anni - cam­biando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia, ci hanno insegnato a scuola - è dispiegata tutta la banalità cui è costretta una questione di così grande portata come la battaglia per la regolazione della giornata lavorati­va da centocinquant’anni a oggi.

Per tutte le ragioni qui sopra esposte, una riduzione dell’orario di lavoro, che punti alla salvaguardia della parità di salario sociale reale (e non solo “parità di salario”, inteso semplicemente quale busta paga, come spesso lo slogan di moda fa intendere), si accoppia poi imprescindibilmente anche alla salvaguardia della parità delle condizioni d’uso della forza-lavoro. I margini di manovra nella lotta sono dati dalla definizione della  con­trattabilità in termini di produttività e intensità, turni e articolazione dell’orario stesso. Per memoria, si annoti una circostanza: nelle lotte del 1969-70, presupposto per la riduzione di orario era la lotta contro il *lavoro straordinario*: pur se piena di contraddizioni, giacché oggi (a differenza di allora) in condizioni di crisi di lavo­ro lo straordinario diventa fonte vitale di sussistenza per i “fortunati” occupati, è inutile porre l’altra questione. In effetti, il capitale sa bene sia come prolungare l’orario contrattuale, sia come recuperare la stessa quantità di lavoro condensandola in un tempo ristretto. E lo fa comunque, anche senza riduzione d’orario: sicché la ridu­zione d’orario compensata con incrementi della cosiddetta “produttività” (che in realtà è maggiore intensità) si palesa immediatamente come un imbroglio (tanto caro alla Cisl, ma non solo), qual è realmente.

v. Rimangono ancora da indagare alcune importanti questioni collaterali e complementari alla questio­ne centrale del salario sociale, che prima sono state soltanto indicate. Un’integrazione di documentazione su ta­li temi è indispensabile, semmai attraverso supplementi di inchiesta.

Anzitutto, negli indici ufficialmente impiegati per deflazionare l’andamento nominale dei salari mone­tari, manca di solito la concreta verifica del *potere d’acquisto* dei lavoratori sia riguardo all’effettiva *com­posizione merceologica* dei beni e dei servizî ottenuti per la sussistenza, sia rispetto alla diversa *localizzazio­ne territoriale* (regionale e urbana) del proletariato. Ora, codesto tipo di conoscenze è essenziale per valutare correttamente quali condizioni di vita della classe lavoratrice corrispondano al complessivo salario sociale. La questione riguarda tanto i mezzi della sussistenza, storicamente determinati, acquistati direttamente col reddito ottenuto dalla vendita della forza-lavoro, quanto le prestazioni ricevute a compensazione (piena o ridotta) di pagamenti indiretti, particolari o universalistici. Quest’ultima faccenda, vista dal­l’altro lato, è già stata esami­nata a proposito del sistema di prezzi amministrati, tariffe e fisco: anche se, ora, una sua considerazione più di­rettamente riferibile alla condizione proletaria richiederebbe un’analisi più disaggregata, per composizione so­ciale e territoriale.

Intanto, a es., anche sapere che nel 1996 il reddito disponibile delle “famiglie” è cresciuto del 4,8% (0,4% al di sopra dell’inflazione del 4,4%) può significare poco o nulla. Il modestissimo miglioramento dell’ul­timo biennio, puramente nominale anche per gli altri motivi che si diranno tra poco, fa sì che, mentre “tra il 1993 e il 1997, l’aumento delle retribuzioni dovrebbe toccare il 14,4% , l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, farà registrare un incremento pari al 15,5% “. Ossia è la stessa Istat che indica una differenza negativa dell’1,1% , sottolineando “tuttavia che non si tratta delle retribuzioni di fatto”, ma solo di quelle contrattuali. Ben sapendo, cioè, che la situazione dei moltissimi lavoratori fuori contratto è peggiore, ciò vuol dire che la media del potere d’acquisto scende ancora. Inoltre, tale potere d’acquisto è calcolato sulla base di una composizione media della spesa delle famiglie: il cosiddetto *paniere*, quello che in tempi ormai obsoleti ser­viva per calcolare la scala mobile sulle buste paga. La nuova composizione media del paniere, rivista periodi­camente dall’Istat, può anche essere in prima approssimazione accettabile, proprio in quanto media, anche se verifiche più circostanziate e concrete da parte proletaria non guasterebbero affatto. In particolare, una tal veri­fica per gli strati popolari sarebbe assai interessante sia riguardo al “peso” che indica l’importanza di ciascuna voce nel paniere, laddove a es. si vede l’aumento di peso dei telefonini rispetto agli alimenti, di una marca di sigarette rispetto a un’altra, sia riguardo alla “qualità” delle merci e dei servizi, comprati e pagati in zone diver­se d’Italia, che non è statisticamente rilevata e rilevante, ma che cambia assai le cose reali.

Il problema generale del potere d’acquisto dei salari, perciò, si pone con prepotenza nel momento in cui le rilevazioni statistiche sembrano non corrispondere all’esperienza pratica di tutti i giorni: il potere soporifero delle “medie” può narcotizzare importanti differenze. I bilanci delle “famiglie”, dopo aver sostenuto una spesa o pagato delle bollette, alla fine della settimana o del mese, sembrano spesso assai più pesanti di quanto i con­solatòri dati statistici telediffusi mostrino. Certo, in alcuni casi potrebbe anche darsi che il “senso comune” sia portato istintivamente ad assumere attitudini da autodifesa di fronte a qualunque uscita di reddito, sì che possa sembrare di spendere di più anche quando ciò non sia vero. Tuttavia, è ragionevole ritenere che, nella maggior parte dei casi, le indicazioni inflazionistiche a carico della spesa proletaria siano largamente sottovalutate. Con­fermano questa impressione sia le autorevoli verifiche compiute in passato sia le precise indicazioni statistiche ufficiali. Queste ultime avvertono che “nel calcolo non entrano perciò tasse di concessione governativa, bolli, contributi sociali, imposte dirette, retribuzioni pagate a collaboratori domestici, interessi sui mutui, che pure fanno parte delle spese delle famiglie, ma non rappresentano prezzi al consumo. I loro andamenti si devono cercare (e si trovano) in altre fonti statistiche e nei dati di contabilità nazionale”. Così, a es., si può “trovare” che la pressione fiscale diretta e contributiva sulle “famiglie” è passata dal 23,7% del ‘90 al 26,2% del ‘96, cioè con una ulteriore  perdita di potere d’acquisto del 2,5% . Come pure si “trova” che ogni giorno aumenta il nu­mero dei giovani e meno giovani senza lavoro a carico del salario sociale di classe, dei precari cronici, degli anziani con pensioni tagliate, ecc., ossia delle mani che devono attingere allo stesso “paniere” previsto invece per una famiglia-tipo di due adulti e due ragazzi. Dunque, proprio in questo caso, “osservatòri” di parte proleta­ria, costruiti intorno a un’inchiesta di classe, possono risultare di grande ausilio. E ciò potrebbe fornire anche importanti indizî sul cambiamento nella qualità delle merci consumate o dei servizî fruiti, di cui, come si è ap­pena detto, non si percepisce l’incidenza nelle statistiche meramente quantitative: insomma, fa differenza, a pa­rità presunta di indice di spesa, un pollo ruspante da uno di batteria, o una clinica funzionante di Treviso da un ospedale fatiscente di Crotone.

In effetti, in una situazione in cui l’economia nazionale presenti significativi squilibri territoriali (com’è il caso anche dell’Italia), le condizioni di vita della popolazione lavoratrice risentono pesantemente di simili differenze. Il cosiddetto *costo della vita* (un termine così orribile che solo la società del capitale poteva co­niare) è assai diverso tra una cittadina del nord e un villaggio del sud, o tra una metropoli e un paese di campa­gna, o tra un quartiere e l’altro di una grande città; e assai diversi sono i “godimenti” che vengono procurati e i “bisogni” che vengono soddisfatti col medesimo costo. Un’indagine in tal senso è forse ancor più laboriosa di quella indicata per la questione immediatamente precedente. Ma è anch’essa essenziale, affinché quelle perce­zioni immediate sulle differenze di potere d’acquisto possano essere suffragate con cognizione di causa proprio dalla disaggregazione territoriale ora indicata.

Per soppesarne appena la grande portata può essere sufficiente scorrere superficialmente alcuni dati sta­tistici ufficiali relativi alla bipartizione del territorio italiano nelle due zone del sud e del nord-centro. Tra le due aree, a fronte di un rapporto di popolazione pari a 0,58 , confermato da quello delle forze di lavoro con 0,56 , si pongono gli altri rapporti in una direzione chiaramente divaricata: quelli, per così dire, “positivi” rela­tivi a ricchezza, benessere, ecc., scendono tutti al di sotto di 0,5 (da 0,49 per la spesa sanitaria a 0,25 per la spe­sa per spettacoli, passando per 0,44 per consumi, 0,38 per pensioni e previdenza, 0,34 per il pil, 0,33 per le for­ze di lavoro femminili, 0,3 per gli occupati nell’industria, ecc.); mentre quelli, sempre per così dire, “negativi” relativi a povertà, disagio, ecc., salgono tutti al di sopra di 0,6 (da 0,63 per le cosiddette “non forze di lavoro”, a 0,67 per quelle femminili, a 1 per gli occupati in agricoltura, fino a 1,3 per i disoccupati ufficiali, qui ancor più occultati che nel centro e nel nord del paese).

Per avere un quadro ancor più esauriente sarebbe necessario ricostruire pure una serie storica (su dati di difficilissima, se non impossibile, reperibilità) dall’unità di Italia a oggi (ma basterebbe anche solo dal secondo dopoguerra o dagli anni settanta) dell’effettivo *trasferimento di ricchezza reale* dal sud al nord, attraverso il fisco in primo luogo, ma anche per il tramite di *agevolazioni e finanziamenti pubblici*. E soprat­tutto, da un punto di vista dell’analisi di classe, servirebbe conoscere la quantità di lavoro erogato, nel sud o con la migra­zione interna, a favore dell’attività produttiva dell’industria basata nel nord del paese, dall’epoca sabauda attra­verso i periodi fascista e democristiano fino a oggi. In altri termini, si dovrebbe sapere quanto plusvalore sia stato forzosamente trasferito dal sud, in un contesto di “scambio ineguale” in senso proprio marxiano, ossia di classe (e non già sottosviluppista o “terzomondista”, ossia a carattere territoriale e regionale, sì da avere mate­riale scientifico, e non propagandistico, per replicare, a esempio, ai padani di Bossi).

Infine, per una stima corretta del salario di classe nella piena accezione marxiana, serve considerarlo nel suo carattere relativo, ponderandone cioè la dinamica  in relazione all’aumento della “produttività sociale” o della *crescita del pil*. Statisticamente, a livello aggregato, si tratta di seguire l’andamento di quella voce co­nosciuta come *distribuzione funzionale del reddito*: e non sorprenderà constatare, per chi conosce l’analisi marxiana, come essa si attesti, in maniera relativamente stabile nel tempo lungo, al di sotto del 50% - il “miti­co” esempio di Marx di un tasso di sfruttamento del 100% non è poi così peregrino o assurdo, come i critici hanno provato a far credere. Senonché, nei periodi di più profonda crisi, quell’indice si scosta dalla sua tenden­za storica ulteriormente verso il basso (in Italia, la quota salariale sul reddito ha recentemente toccato il 42%). 

Naturalmente, una comparazione di tal genere a livello disaggregato, per strati sociali e per localizza­zione, può fornire una migliore conoscenza della *disuguaglianza distributiva* e della misura della sua polariz­zazione, tanto più concentrata verso gli estremi quanto maggiore sia la fase di crisi. Una tale analisi di maggior dettaglio fornisce una duplice indicazione sulla composizione complessiva delle classi sociali: da un lato, si conferma, attraverso altri elementi, la conoscenza delle differenti condizioni di vita del proletariato, conforme­mente alla posizione sociale di ciascun gruppo (dagli strati emarginati del semiproletariato urbano moderno fi­no a quelli dell’*aristocrazia proletaria*, “garantiti” dalle briciole dell’imperialismo); dall’altro, si dànno le condizioni per completare l’analisi delle classi (giusta l’insegnamento di Lenin) con la piena conoscenza della posizione sociale anzitutto dei diversi strati della borghesia industriale, e poi dei proprietari immobiliari e fon­diari, della piccola borghesia e delle nuove classi medie; senza di che equivale a non sapere nulla neppure del proletariato, come accade alla stragrande maggioranza dell’asinistra.

A proposito della necessaria conoscenza della posizione economica e sociale delle classi dominanti, e dei loro diretti subalterni, una circostanza assume maggiore rilevanza nell’epoca dell’imperialismo. Con l’af­fermarsi del capitalismo monopolistico finanziario, prima a base nazionale e poi su scala transnazionale, pren­de consistenza la cosiddetta forma pubblica della proprietà capitalistica, a fianco di quella tradizionalmente e anche nominalmente privata. Ovviamente, codesta forma non cambia, quanto a rapporti di proprietà come rap­porti di classe, la sostanza del rapporto di capitale, pur determinandone modalità e funzioni differenziate. La formazione di uno strato sociale di “funzionari” (che alcuni, per omologia e immediatezza di comprensione del senso comune, possono perfino  chiamare “borghesia di stato”) diviene perciò significativa per l’organizzazio­ne stessa della burocrazia, nel grande “corporativismo generale” dello stato dell’imperiali­smo che scaccia il piccolo corporativismo delle burocrazie particolaristiche.

Siffatta forma pubblica della proprietà capitalistica - che come tale, laddove domini il modo capitalisti­co di produzione, è e rimane privata - fa tuttavia da supporto più diretto, necessitando di un minor numero di mediazioni, anche alle rammentate funzioni dello “stato sociale” negli interessi contraddittori della classe do­minante. Il tema delle *privatizzazioni e deregolamentazioni* dell’attività gestita dallo stato è chiaramente fun­zionale a stabilire il peso relativo dell’intervento pubblico nella circolazione del plusvalore, sia come capitale che come reddito. Sono facili da comprendere, allora, quali possano essere gli effetti collaterali del cosiddetto rapporto tra pubblico e privato, fino all’effimera e anodina invenzione del *privato sociale* o del “mercato del benessere” (welfare market di contro al welfare state), in merito al reale peso del salario sociale sul reddito na­zionale; come si è detto, è in questo quadro che ha senso considerare correttamente, al di là del formalismo e della superstizione di stato, i risultati che possono conseguire dalle forme di lotta concrete per la *proprietà pubblica* [sull’insieme di tali questioni, si rinvia alle specifiche relazioni in questo stesso seminario].

 

Obiettivi in termini di salario sociale possono rappresentare il nucleo intorno al quale costruire praticamente una sorta di “programma minimo”: quel tipo di programma, già dianzi rammentato nelle indica­zioni e con le parole di Marx e Engels, che caratterizzi la strategia e la tattica dei comunisti in una fase politica­mente non rivoluzionaria: quando, cioè, non sia all’ordine del giorno (... non del decennio o del secolo!) la pre­sa di potere politico; ciò che lo distingue, per definizione, da un “programma di transizione”. Sembrerebbe su­perfluo ripetere (ma spesso non lo è) che la retta accezione marxiana di programma minimo nulla ha a che ve­dere con le deformazioni revisionistiche e socialdemocratiche, che ne hanno usurpato nome e spazio politico.

Molti temi qui riportati, che costituiscono una piattaforma possibile per un simile programma minimo, erano di fatto implicitamente presenti in forma organica, ed è proprio siffatta organicità ciò che più è interes­sante, nelle lotte operaie del 1969-70: condizioni d’uso della forza-lavoro, lotte su ritmi, straordinari, mobilità, nocività, ecc., qualità della produzione socialmente utile, aumenti salariali egualitari, difesa dei redditi bassi, lotte per la previdenza, la salute, la casa, la scuola e sul territorio, ecc., fino alla difesa e alla conquista di spazî di agibilità politica e istituzionale, attraverso Cdf e Cdz. Non per caso fu immediata (fin dal 1971-72) la rispo­sta negativa e distruttiva data dalla sinistra storica riformista, attraverso l’istituzionalizzazione neocorporativa delle rappresentanze sindacali, l’accentramento contrattualistico del conflitto, il nuovo modello di sviluppo e il compromesso storico. La lotta contro la disoccupazione - in quanto tale, ma soprattutto in quanto sia, piuttosto che disoccupazione, riproduzione dell’esercito industriale di riserva come precarietà occupazionale e salaria­le, con tanto di flessibilità, mobilità, ecc., quali forme di comando capitalistico sulla forza-lavoro - scaturisce così solo dalla complessiva articolazione intorno al salario sociale: in tale contesto è incluso perciò anche il problema dell’*immigrazione* e del *lavoro femminile e giovanile* [anche per tali ultime questioni, si rinvia allo specifico contributo presentato in altra relazione di questo stesso seminario].

Per cercare di porsi domande sensate, cui dare risposte altrettanto sensate in una “inchiesta operaia”, occorre sapere alcune altre cose: in quali condizioni storiche della fase ciclica dell’accumulazione di capitale sia lecito e credibile parlare di nuovi investimenti e di ripresa dell’accumulazione stessa e dello sviluppo eco­nomico; in quali circostanze, dianzi ricordate, il capitale sia in grado di abbandonare il cosiddetto “criterio pri­vato di efficienza” per accollare le proprie spese generali al suo stato, il quale a sua volta possa farle pagare coattivamente come sovraimposte alla collettività, ovvero ricorra a restrizioni coercitive e tagli per recuperare liquidità; in quali rapporti di forza tra le classi, infine, si possa ipotizzare un intervento statale, che magari alcu­ni definiscano di tipo “nuovo”, capace di ovviare alle mancanze e agli inganni dello “stato sociale” qual è ne­cessariamente quello borghese storicamente conosciuto (cercando magari di tener presenti i rammentati avvisi di Engels e Marx sulle cattive “statalizzazioni”).

Per costruire correttamente queste e quelle domande serve indicare i criteri di classe capaci di dare coe­renza ai contenuti di un programma di lotta (sia pur “minimo”, appunto, nel senso marxiano sopra indicato). Per tutte queste ragioni, si è argomentato per cercare di indicare come l’obiettivo di lotta centrato sul “salario sociale” sia l’unico che possa esprimere tutta l’autonomia di classe dei lavoratori e sia tale da definire strategi­camente un continuo movimento tattico delle momentanee alleanze, con altre classi e strati sociali colpiti dall’egemonia del grande capitale monopolistico finanziario, tese sia a raggiungere obiettivi limitati e concreti sia a indebolire il fronte avversario. Da questo punto di vista, si è mostrato come emerga la profonda differenza tra “salario sociale”, in quanto rappresenti la forma concentrata dell’antagonismo di classe nella struttura del modo di produzione capitalistico, e tale da estendersi alle forme della sovrastruttura politica e istituzionale, da un lato, e “stato sociale” dall’altro, in quanto quest’ultimo esprima unicamente il surrogato borghese di quello, il tentativo di risposta che il capitale dà attraverso il “suo” stato, usato come ammortizzatore e normalizzatore del conflitto sociale.

La base dei vari contenuti di quello che qui è stato definito salario sociale globale di classe altro non è che ciò di cui parlava Engels come acconto concesso dal governo borghese (ossia le politiche dello “stato so­ciale”), senza che gli si debba alcuna riconoscenza nella lotta di classe, il cui fine ultimo è e rimane la socializ­zazione di tutti i mezzi di produzione. Dunque è come criterio di programma, e non come lista di semplici pun­ti, che va bene riprendere il concetto articolato di “difesa della forza-lavoro” - per la sua rigidità, contro le varie forme di flessibilità (mobilità, intensità, straordinari, ecc.) e per il salario diretto - collegato alla difesa più ge­nerale dei bassi redditi, o sarebbe meglio dire delle condizioni di vita delle classi a basso reddito, anche attra­verso l’organizzazione trasversale sul territorio. Proprio tutto ciò include integralmente la strategia, precedente­mente illustrata, relativa al salario sociale (prezzi politici o amministrati, tariffe, fisco, pensioni, servizî sociali, casa, ecc.) e alle sue implicazioni e conseguenze politiche e istituzionali.

I temi di un’inchiesta sono posti, perciò, dalla maturità della polarizzazione di classe, su scala mondia­le, nella fase imperialistica transnazionale del tardo capitalismo, proprio perché a questa fase fa riscontro un vergognoso depistaggio ideologico che mira ad allontanare l’esame della società da una corretta analisi delle classi. Che tutto ciò abbia alle sue spalle un reale processo di scomposizione e ricomposizione internazionale del proletariato, attraverso la definizione di nuove figure di lavoro materiale e mentale, non è motivo sufficien­te né per accedere alle mode postmoderne della “fine delle classi”, e neppure all’asserita presunta necessità di ridefinire la categoria stessa di “classe” (come se una categoria, e non solo la sua forma di esistenza, dipendes­se dalla mera fenomenicità degli eventi storici). Così come, pure, la stessa nuova composizione di classe del proletariato è determinata, immediatamente e mediatamente, dalla ridefinizione della borghesia mondiale attra­verso il riassetto proprietario del capitale transnazionale: non per nulla il capitale è un rapporto sociale, il qua­le definisce sia la struttura delle classi antagoniste sia la contraddittorietà immanente alla sua stessa molteplici­tà. Gli elementi qui sommariamente esposti possono essere solo una prima indicazione della direzione in cui muoversi per riempire i tasselli necessari a completare il quadro di riferimento: e, come si può immediatamente capire dalle tematiche ragionate appresso semplicemente elencate, non è compito da poco, né facile né breve.

 

 

 

Allegato

Temi intorno ai quali raccogliere documentazione (elencati in ordine alfabetico)

 

*agevolazioni e finanziamenti pubblici (*esenzioni e finanziamenti agevolati)

*appalti e commesse

*apparato parafiscale

*aristocrazia proletaria

*assistenza sanitaria

*assistenzialismo

*attività senza fini di lucro

*aumento complessivo della classe lavoratrice

*autogestione dei fondi di assistenza e previdenza

*casa

*composizione merceologica dei consumi (*paniere)

*consumi del proletariato (*consumi necessari)

*contratto collettivo di lavoro

*costo della vita

*costo del lavoro

*crescita del pil (*reddito disponibile)

*debito pubblico

*dinamica del salario indiretto e differito

*distribuzione funzionale del reddito (*disuguaglianza distributiva, *trasferimento di ricchezza reale)

*energia, acqua, trasporti, comunicazioni, ecc.

*esercito industriale di riserva stagnante

*evasione contributiva

*evasione fiscale

*finanziamento dei servizî

*flessibilità

*immigrazione

*imposizione diretta e progressiva

*imposte indirette

*incidenza del fisco (*superimposizione fiscale, *trasferimento coatto di reddito)

*istruzione

*lavori ir/regolari

*lavori socialmente utili

*lavoro e produzione “immateriale”

*lavoro femminile e giovanile

*lavoro parasubordinato

*lavoro produttivo e improduttivo

*lavoro straordinario

*liquidazioni (*fondi patrimoniali

*localizzazione territoriale

*non forze di lavoro

*occupazione industriale

*oneri sociali (*contributi sociali, *prelievi contributivi)

*organizzazione del lavoro

*partecipazione (*cottimo neocorporativo)

*potere d’acquisto reale (*spesa del reddito dei lavoratori)

*prestazione di servizî (*prestazioni collettive)

*prezzi amministrati o politici e tariffe (*tariffe preferenziali)

*privatizzazioni e deregolamentazioni

*privato sociale

*proprietà pubblica

*riduzione dell’orario di lavoro (*regolazione, *tempo di lavoro, * limitazione della giornata lavorativa)

*salario a cottimo

*salario a tempo

*salario differito

*salario diretto

*salario indiretto

*salario minimo

*salario o reddito garantito

*settori in crisi

*sicurezza lavorativa e sociale

*sottosalario (*volontariato a sottosalario)

*spesa pubblica

*subfornitura

*tasse

*terzo settore (*fuori mercato)