IMPERIALISMO E DIPENDENZA
critica delle teorie del sottosviluppo e del sistema-mondo
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Berch Berberoglu
Il testo che segue riproduce l’estratto di una relazione tenuta da Berberoglu lo scorso anno all’Università di Roma. Per esposizioni più circostanziate della presente tematica si rimanda agli articoli di Berberoglu pubblicati su la Contraddizione no.33 e no.39, e ancor più agli specifici suoi volumi sulla teoria dello sviluppo economico e dell’imperialismo, di cui si dettero ampi riferimenti bibliografici. In particolare si segnala ora la recente uscita della traduzione italiana del libro di Berberoglu, L’eredità dell’impero: declino economico e polarizzazione di classe negli Stati Uniti, Vangelista, Milano 1995, premiato come miglior libro del 1993 dalla sezione marxista dell’associazione americana di sociologia. [gf.p.]
Nell’arco degli ultimi vent’anni si sono succedute molte differenti critiche a quelle che sono considerate le teorie dello sviluppo economico di impostazione dominante, affermatesi negli anni cinquanta e sessanta. Il loro carattere di teorie borghesi è dovuto alla loro concezione di tipo imperialistico, secondo cui le esperienze che i grandi monopoli dei paesi capitalistici “sviluppati” imposero ai paesi “sottosviluppati” rappresentava il modello di sviluppo capitalistico come un’indicazione di percorso da seguire per la crescita. Non è il caso di entrare nel merito delle diverse varianti di tali teorie (distinguibili per i diversi criteri ora basati sulla scelta di particolari indicatori, ora sul grado di diffusione o sulle fasi dello sviluppo, ecc.), in quanto tutte sono cadute in un notevole discredito. Quasi nessuno ormai ripone in esse particolare affidamento, pure per la sfiducia ideologica da esse indotta a causa della ricordata imposizione di criteri del capitalismo “avanzato” per ricercare il dominio, anche culturale e intellettuale, del capitale sul mondo intero.
Molti intellettuali progressisti - anche tra coloro che lavoravano all’interno di organizzazioni dominanti, quali l’Onu, l’Ecla (commissione economica per l’America latina), ecc. - hanno cominciato a capire la questione, a partire dagli anni sessanta. La prima reazione contro le teorie dello sviluppo si ebbe argomentando in termini di “dipendenza strutturale” da parte di economisti sudamericani, cileni e brasiliani (come Furtado, Dos Santos, ecc.). Fondamentalmente essi, in risposta alle cosiddette teorie della “modernizzazione”, dello “sviluppismo”, avanzarono le loro critiche sulla base dell’esperienza del proprio paese.
André Gunder-Franck sistemò le proprie analisi sullo sviluppo capitalistico in America latina a metà anni sessanta. La sua principale argomentazione, in contrasto con l’opinione dominante, era che, con la diffusione del capitale, nel terzo del mondo non si avrebbe avuto sviluppo ma l’opposto, ossia sottosviluppo.
Sviluppo e sottosviluppo vanno visti come due facce della stessa medaglia. Certamente, se si ha sviluppo in Usa, in Europa e negli altri centri del capitalismo “avanzato”, si ha sottosviluppo sull’altra faccia della medaglia. Fin dallo sviluppo del Portogallo e della Spagna attraverso il colonialismo, poi dall’espansionismo della Francia all’imperialismo della Gran Bretagna, e ora degli Usa - la ragione per cui questi paesi sono diventati i punti alti del capitalismo è perché essi hanno sfruttato e saccheggiato il terzo mondo. Così la teoria dello sviluppo economico ha ceduto il passo alla teoria del sottosviluppo e della dipendenza. Ma anche queste interpretazioni critiche - dopo averle studiate e apprese, mediante un chiaro esempio di apprendimento dialettico - meritano a loro volta di essere sottoposte a critica. Alcuni dei nuovi critici, tuttavia, pur partendo dal rifiuto delle teorie dominanti dello sviluppo e della modernizzazione, ritenendo inadeguate all’attualità le teorie marxiste, hanno riproposto versioni aggiornate di quelle critiche, come la teoria del sistema-mondo di Immanuel Wallerstein. Molti teorici della “dipendenza” si sono così prontamente convertiti alla teoria del sistema-mondo, divenuta di moda nell’ambiente accademico, con convegni e conferenze, libri e articoli.
Costoro non sono riusciti a fare i conti con la teoria marxista, ben più forte nei suoi fondamenti, alla quale purtuttavia credono di poter fare riferimento. Nell’analisi marxista, se si dichiara di seguirla, è importante stabilire quale sia l’elemento centrale di riferimento: in questo senso, lo sfruttamento del lavoro, inteso come estrazione del plusvalore, non può stare sullo stesso piano dell’oppressione, della distruzione dell’ambiente, del peggioramento della qualità della vita, ecc., essendo di questi altri elementi la causa primaria. Altrimenti si segue ecletticamente un populismo piccolo-borghese e moralistico che sogna una società “buona”. Non basta dire che il capitalismo è “dannoso” per l’intera umanità, se non lo si spiega nei termini scientifici dei rapporti di sfruttamento e delle contraddizioni del capitale stesso. Non per caso la tendenza piccolo-borghese è quella che caratterizza il revisionismo.
Se si vuol porre un termine di confronto con il marxismo, non è con l’ideologia, quanto piuttosto con la teoria dell’imperialismo, come analisi critica della società capitalistica in termini materialistico-dialettici, che occorre misurarsi. Quest’impostazione implica l’analisi sia della dinamica della trasformazione della produzione e dei suoi rapporti, sia delle forme organizzative che i soggetti storici si dànno per migliorare le posizioni di partenza. Tutto ciò assomma alla considerazione delle classi sociali, delle loro relazioni e dei rapporti di proprietà, controllo, ecc., dei mezzi di produzione, trasferendo tale analisi sul terreno istituzionale, non solo riguardo allo stato, ma anche rispetto alle grandi istituzioni economiche, le imprese multinazionali e la loro organizzazione manageriale di controllo, e così via.
La teoria della “dipendenza”, nella sua versione radicale che prese le mosse dalla critica della “modernizzazione”, per l’individuazione delle cause del sottosviluppo mette l’accento (come a es. in Gunder-Franck, sopra ricordato) sull’elevato ritmo di sviluppo dei paesi capitalistici avanzati di Europa e America, imposto ai paesi del terzo mondo. Secondo tale teoria occorre rompere questo circuito “sviluppista”, chiamato appunto ciclo del sottosviluppo. La connessione è vista nella dipendenza - economica, politica, militare, culturale, ecc. - dai paesi capitalistici più avanzati. Tale dipendenza lega i capitalisti, i i politici, i militari, gi intellettuali dei paesi del terzo mondo al “centro”, che può così esercitare il suo controllo attraverso i propri “aiuti” e porre limiti alla scelta del modello di crescita di tali paesi. Si ha così una “replica” dei modelli dominanti - il “modello americano” - a scapito della cultura locale.
Ma ogni volta che si ha che fare con i caratteri della “dipendenza” viene sùbito in luce un altro concetto: il concetto di imperialismo. Tuttavia questi teorici non si rifanno alla teoria dell’imperialismo di Lenin - e neppure a quella di Luxemburg, comunista, o di Hobson, liberale ma accettabile - e cercano di formulare una affatto “nuova” teoria dell’imperialismo, che non può essere definita marxista. Si trascura così l’aspetto politico e il riferimento alle classi sociali [Pierre Jalée e Henry Magdoff, dalla Monthly review, hanno chiamato questa teoria come quella dell’“età dell’imperialismo”, dopo che Baran e Sweezy erano partiti dalla teoria dell’imperialismo in termini marxisti come capitale monopolistico]. L’imperialismo è il capitale monopolistico che va oltre i suoi precedenti confini (così l’imperialismo riguarda l’Italia come Singapore, nelle misura in cui c’è il capitale monopolistico che opera oltre le frontiere). L’imperialismo non comporta un giudizio morale, per il solo fatto, comune anche agli antichi imperi, che la ricchezza sia strappata con lo sfruttamento e il saccheggio da parte delle classi dominanti. L’imperialismo moderno è il modo di operare del capitale monopolistico, con l’investimento estero, il commercio e la finanza internazionale. Quanto maggiore è il volume degli affari oltre frontiera, tanto maggiore è la necessità dell’azione politica per mantenere l’ordine stabilito; e l’azione politica richiama il sostegno dell’intervento militare, fino all’invasione per restaurare il potere messo in crisi.
Nelle discussioni che pongono a confronto le teorie della “dipendenza” con le teorie dell’”imperialismo” sovente i due termini si tengono separati. La questione non consiste nel vedere chi dipenda da chi, ma nella relazione stessa di “dipendenza” che in quanto tale implica l’”imperialismo”. Così, se alcuni paesi dipendono da un “centro” è perché questo “centro” è imperialista e rende quei paesi “dipendenti” da esso. Nelle teorie della dipendenza, e nei movimenti politici radicali che da esse derivano, la questione dei paesi del terzo mondo è vista nel fatto immediato della dipendenza dal “centro”, senza risalire alle origini e alle cause di tale dipendenza. Cosicché la battaglia si sposta sul terreno della ricerca di uno sviluppo “indipendente”, “autonomo”, “autocentrato”. Il nemico diventa genericamente l’Imperialismo. I soggetti antagonisti si configurano come i Popoli che combattono contro l’Imperialismo: lotte di liberazione nazionale. Come si combattono queste lotte? Armi in pugno, andando in montagna: Che Guevara, Castro, ecc. diventano simboli particolarmente attraenti per la lotta antimperialista. Ma questa sarebbe già una risposta politicamente avanzata.
Gli economisti strutturalisti della dipendenza offrono una previa risposta economica, che ricerca l’indipendenza dal centro attraverso l’autosufficienza raggiungibile con la strategia dell’industrializzazione per la sostituzione delle importazioni, al posto di quella attuale rivolta alle esportazioni. Questa strategia, che precede le forme di conflittualità più forti, sembra essere una soluzione schiettamente borghese: il controllo dei flussi di importazione-esportazione rimane nelle mani dei paesi capitalistici avanzati, gli investimenti locali sono subordinati ai flussi internazionali del grande capitale che porterebbero al fallimento di piccole e medie imprese, rendendo impossibile un reale sviluppo economico indipendente. La strategia della sostituzione delle importazioni può al massimo consentire di produrre all’interno dell’economia l’autosussistenza di consumo: ma che tipo di economia sarebbe questa? Un’economia autarchica capitalistica, non internazionale e imperialistica, ma nazionalistica locale.
Se si riflette alla questione in termini sociali complessivi [rifuggendo da quel moralismo piccolo-borghese che pensa all’imperialismo solo per le stragi in Africa o per lo sterminio degli indiani nativi d’America], occorre chiedersi quale sia la condizione dei più poveri (contadini, sottoproletari, popolazione urbana emarginata delle metropoli del terzo mondo, baraccati, ecc.): una condizione alla quale non può darsi una risposta umanitaria che non sia di classe, semplicemente dichiarandosi dalla parte degli ultimi della società per condannare chiunque stia ai vertici. La domanda da porsi è: chi sono coloro che stanno ai vertici della società, che è una società imperialistica?
La classe superiore, con i proprietari terrieri, la borghesia “compradora” e la borghesia nazionale, non è composta solo dai capitalisti e dai loro alleati che spartiscono con essi i profitti. Se si scandaglia la base sociale che sta dietro alla strategia della sostituzione delle importazioni si trovano altresì i capitalismi di stato alla Nasser o alla Saddam Hussein, i paesi nazionalisti governati dalla piccola borghesia capitalistica locale. Il pericolo, dunque, è che se si segue la strategia della sostituzione delle importazioni e si espellono gli imperialisti, anche controllando i proprietari terrieri e la borghesia “compradora” strettamente legati all’imperialismo, non si capisca quale società si stia costruendo. E se si segue il percorso capitalistico, sostenendo la borghesia e la piccola borghesia locale, nazionalistica, si costruisce soltanto un capitalismo “indipendente”.
Coloro che sostengono uno sviluppo capitalistico locale indipendente lo contrappongono al capitalismo straniero: ma non c’è molta differenza tra i due. Occorre vedere la loro relazione per considerarli, assieme o separatamente, rispetto ai lavoratori, ai contadini e alle masse popolari. Senza un controllo delle masse, dopo la cacciata degli imperialisti, la borghesia e i capitalisti locali continueranno a sfruttare la popolazione locale: si sarà solo rimpiazzato un capitalista con un altro. [È ciò che è accaduto con la rivoluzione americana: sono stati cacciati i capitalisti inglesi, e ora ci sono i moderni capitalisti americani che sfruttano la classe lavoratrice americana. Non è un caso che oggi la popolazione negli Usa abbia molta paura di cosa possa accaderle nel futuro prossimo. È una condizione di incertezza che può favorire una presa di coscienza ma può anche provocare un’affermazione di movimenti fascisti].
Certo, se non si vuole seguire questa strada non resta che combattere contro l’imperialismo e sostenere le lotte di liberazione nazionale: ma all’interno non ci si può tranquillamente riposare su uguaglianza, giustizia e libertà più sviluppo indipendente dall’imperialismo. La lotta deve essere simultanea contro l’imperialismo e il capitalismo. Se la rivoluzione è a carattere “popolare”, il problema è che presumibilmente i “poveri” propenderebbero per un sistema di tipo capitalistico. La maggior parte dei poveri, anche negli Stati Uniti, vorrebbero diventare capitalisti; e questo è vero in tutto il mondo. In effetti, i “poveri” non desiderano necessariamente il comunismo o il socialismo, ma vogliono mangiare. Questo è il motivo per cui, quando il sottoproletariato o i più poveri si ribellano, la prima cosa che fanno è andare nei supermercati e nei negozi alimentari a saccheggiarli, per soddisfare i bisogni primari. Per questi motivi la cosa che la borghesia teme di più è l’organizzazione della classe lavoratrice in sindacati e partiti comunisti, capace di dare una visione complessiva della società che possa sostituire quella capitalistica. Mentre il sottoproletariato ha una prospettiva individualistica, la classe lavoratrice, attraverso la propria particolare coscienza di classe, ha una prospettiva sociale, ha un “piano” per il futuro.
La disputa sorta tra queste versioni radicali delle teorie della dipendenza e le teorie marxiste che le criticano è che le prime sostengono di non avere nulla a che fare col comunismo e col socialismo, almeno nella stessa misura in cui hanno da criticare le teorie borghesi della modernizzazione: Gunder-Franck accusava i partiti comunisti dell’America latina di seguire esattamente gli stessi modelli di sviluppo delle teorie borghesi della modernizzazione. La critica da fare a questa impostazione, al di là delle considerazioni sul revisionismo di molti partiti comunisti, deve ricondurre all’analisi della struttura delle leggi di movimento dell’accumulazione di capitale. Per superare le critiche moralistiche sui “mali” del capitalismo, occorre tornare all’analisi marxista capace di superare anche i livelli più alti della teoria della dipendenza. La ragione per cui ci si riferisce qui all’analisi marxista rimanda al nome di Bill Warren, in relazione al dibattito che si cominciò a svolgere nell’ambito della terza internazionale sulla natura dell’imperialismo.
Warren definiva l’Imperialismo, pioniere del capitalismo, nel senso che ogni volta che l’imperialismo agisce esso non provoca sottosviluppo bensì sviluppo. È questa un’idea estremamente forte. Gli adepti della teoria della dipendenza si stupiscono di fronte a tale affermazione, protestando per il fatto che i comunisti possano sostenere la tesi che il capitalismo sia “buono” perché porta sviluppo anziché sottosviluppo. Un altro marxista, l’inglese Geoffrey Kay, ha scritto un libro critico, Sviluppo e sottosviluppo, asserendo paradossalmente che, sì, l’imperialismo provoca il sottosviluppo del terzo mondo, ma non perché lo sfrutti troppo, bensì perché non lo sfrutta abbastanza. Si tratta di una concezione molto critica: se l’imperialismo sfruttasse ancora di più il terzo mondo provocherebbe uno sviluppo ancora più grande, certo non uno sviluppo “umano” ma capitalistico. Cioè, quanto più il capitalismo sfrutta milioni di persone nel terzo mondo, tanto maggiore sarà l’attività produttiva presente in quei paesi. Se tale attività non vi fosse tali paesi rimarrebbero indietro. [Il caso del Giappone è rilevante perché, anche se presenta delle differenze, dimostra quale sia stato l’effetto di investimenti, tecnologia e costruzioni americane nel secondo dopoguerra]. È molto interessante cogliere il significato di tutto ciò: l’imperialismo è considerato come uno strumento.
I teorici della dipendenza criticano questa interpretazione marxista considerandola analoga alla tesi degli “stadi dello sviluppo” di Rostow. Essi argomentano la loro critica specialmente ritenendo angusta la teoria del contrasto con le forze produttive, della presa di coscienza della classe operaia e della sua reazione contro il modo di produzione capitalistico, in quanto incapace di portare alla rivoluzione socialista. Secondo questa critica, ipotizzare la necessità prioritaria del passaggio per il capitalismo significa accettare una teoria dello sviluppo tecnologicamente deterministica. Ma non è questo ciò che il marxismo sostiene. Certamente, a es. nel caso della rivoluzione sovietica, non è che il partito bolscevico abbia aspettato che in Russia si sviluppasse compiutamente il sistema capitalistico, in modo che la classe operaia imparasse dall’esperienza dello sfruttamento per prendere coscienza e poi rovesciare il sistema; è nella logica della storia che risiede la necessità che la classe lavoratrice reagisca alle condizioni dello sfruttamento capitalistico, individuando il compito di organizzarsi su queste basi per lottare e sconfiggere il capitale.
Warren, dunque, al contrario di Gunder-Franck, sostiene che il problema non è il sottosviluppo portato dal capitalismo nell’economia del terzo mondo. Il capitalismo si scontra con tutte le sue contraddizioni: pertanto la questione critica è comprendere come analizzare le società, poste in un contesto internazionale. Si possono esaminare le relazioni tra nazioni guardando al rapporto di una nazione con un’altra, a come una sia stata sconfitta, oppressa, controllata, dominata, ridotta alla dipendenza economica, e perciò impossibilitata a svilupparsi. Oppure si può seguire un criterio diverso: l’analisi delle classi sociali. Se si ragiona in termini di classe, può essere relativamente poco importante sapere se un paese sia sviluppato o sottosviluppato. In effetti, se sviluppo vuol dire più fabbriche, più strade, più ponti, ecc., ciò può certamente migliorare materialmente le condizioni di quella società, in termini industriali, rispetto all’arretratezza di società agricole semifeudali. Per esempio, per i marxisti è meglio avere, mediante l’imperialismo, un Brasile piuttosto che una Haiti; il livello di sviluppo di Haiti è così basso proprio perché l’imperialismo non ha lì “sfruttato” a sufficienza, come ha fatto in Brasile, Argentina, Messico, ecc. La contraddizione tra i due casi è che in Haiti non c’è una classe operaia abbastanza grande sfruttata dal sistema del capitalismo industriale, mentre in quegli altri paesi c’è una situazione che virtualmente può portare a una rivoluzione comunista, alla formazione di un partito comunista o altro.
L’esperienza che si ha nelle condizioni capitalistiche non può aversi in altro modo, e non è “determinismo tecnologico” riferirsi allo sviluppo di tali condizioni, anche se quello sviluppo è per definizione “cattivo” per le masse, perché vengono sfruttate proprio da quel capitalismo industriale per cui il medesimo sviluppo è “buono”. Ma solo così è possibile articolare l’analisi in termini di rapporti di classe, sfruttamento del lavoro, estrazione del plusvalore, ossia in termini marxisti. Albert Szymanski sostiene che lo sviluppo del terzo mondo non è un risultato automatico dell’espansione capitalistica, ma dipende dal tipo di investimento: laddove si installano fabbriche e industrie, che occupano lavoro, formando una classe operaia, lo sviluppo è possibile, mentre se ci si limita all’estrazione e al saccheggio di materie prime ciò è improbabile che avvenga [si pensi all’esempio del petrolio in medioriente], confermando l’arretratezza di tipo agricolo e la dipendenza dall’estero. L’esistenza o meno di una classe operaia, che può organizzarsi, dà anche diverse prospettive politiche di trasformazione sociale, sottraendosi alla direzione della piccola borghesia nazionale.
In termini marxisti, questo è ciò che vuol dire riproduzione e diffusione dei rapporti di produzione capitalistici su scala mondiale. Nella sua espansione imperialistica transnazionale il capitale ripete e fa ripetere al proletariato mondiale le stesse esperienze nei paesi più diversi, creando così una omogeneità di condizioni materiali. Occorre tuttavia non astrarre da siffatte condizioni materiali, altrimenti si rischia di cadere negli equivoci dell’indifferenza delle relazioni di interdipendenza definite dalle teorie del sistema-mondo o anche nelle utopie “internazionalistiche” di un certo marxismo che immagina la contrapposizione pura di una Classe operaia mondiale unita contro l’intero Capitale Mondiale. La rivoluzione in questi casi rimane solo una parola, pura ideologia che esalta la lotta e sventola bandiere rosse ma non tiene conto delle realtà concrete dei diversi paesi, culture, lingue. Solo su queste basi specifiche di localizzazione del capitale può formarsi l’elemento soggettivo della coscienza rivoluzionaria e dell’organizzazione di classe. È ovvio che la costruzione del processo rivoluzionario, per queste ragioni che sono oggettive, richieda tempi molto lunghi per la formazione della coscienza di classe.
Con l’idea del “sottosviluppo” si rimane invece ancorati a un’impostazione borghese: se la coppia sviluppo-sottosviluppo è considerata “cattiva”, perché determinata dall’imperialismo, con una simile impostazione si può solo puntare a uno sviluppo autonomo e indipendente. E se non si definisce il tipo di sviluppo che si prospetta - perché magari si ha paura di essere accusati di essere socialisti o comunisti - senza neppure capire quali siano le classi sociali in lotta contro l’imperialismo, sarà la borghesia nazionale a prendere la guida del movimento antimperialistico. Se si sostiene un tale movimento antimperialistico si avrà un altro sistema capitalistico, anche più violento e corrotto di quello contro cui si è lottato [com’è accaduto negli anni sessanta in molti paesi africani, dove si sono creati regimi di neri contro neri: non è questione di colore della pelle o di nazionalità, allora, ma solo di sfruttamento del lavoro]. Il capitale, in quanto tale, non ha colore della pelle, non ha nazionalità, è capitale. Il capitale di una nazione si allea con quello di un’altra. Guardando ai rapporti di classe, si vede che il capitale locale si allea col capitale imperialistico. La borghesia usa il nazionalismo per fare il lavaggio del cervello al proletariato.
Emergono così le contraddizioni: si coinvolgono le classi lavoratrici per sovvertire, anche militarmente, i regimi corrotti; ma, allo stesso tempo, i capitalisti locali, che hanno solo interesse a guadagnarci personalmente, sanno che i capitalisti stranieri sono molto più forti. Perciò, non potendoli battere con la concorrenza, la borghesia nazionale tende a trasformarsi in borghesia “compradora” dipendente dal capitale imperialistico. [Così è avvenuto in Messico o in Brasile; e pure in Turchia, dove il capitalismo di stato inizialmente instaurato dalla piccola borghesia nazionale si è trasformato in neocolonialismo con la borghesia “compradora” dipendente dall’imperialismo Usa e ora anche da quello tedesco]. Dal punto di vista marxista, si comprende come queste teorie borghesi - passate dalle idee di “sottosviluppo” a quelle “dipendenza” in forme più o meno radicali, per esprimere una concezione moralistica dell’imperialismo - si riferiscano alla terminologia economica istituzionale senza andare oltre essa. Non considerano mai le classi sociali e la popolazione, se non semmai per lamentarsi moralisticamente delle condizioni dei poveri, degli ultimi della società, della schiavitù, ecc. Ma per le teorie della dipendenza questi “ultimi” della società sono semplicemente coloro che soffrono nei sobborghi malsani, e che devono organizzarsi per “ribellarsi”, nel senso più volgare del termine.
Il problema, viceversa, sta nel definire quale tipo di svolta politica individuare per imprimere una direzione di sviluppo che sia effettivamente favorevole alla popolazione. “Chi dirige il movimento e contro chi esso è rivolto, per quale tipo di società”: a ciò risponde l’analisi marxista. Il soggetto rivoluzionario è la classe lavoratrice alleata ai contadini, e in qualche caso agli strati inferiori della piccola borghesia, o perfino parte della borghesia nazionale [come sostenne Mao Tse-tung in Cina nel 1949, ma appunto sotto la direzione di un forte partito comunista, qui sta la differenza]. Altrimenti la borghesia nazionale va esclusa al pari dei proprietari fondiari, in quanto classi vendute all’imperialismo, concentrando le forze su proletari e contadini intorno alla classe operaia.
Così, se si procede con un’analisi delle classi come quella marxista, si identificano le “classi” non in base all’oppressione “umana” ma per lo sfruttamento del lavoro e l’estrazione di plusvalore; si può essere poveri e oppressi, in fondo alla scala sociale, ma non per questo sfruttati capitalisticamente, come il sottoproletariato. I moralisti delle teorie del sottosviluppo preferiscono simpatizzare per i più oppressi piuttosto che analizzare la realtà in termini scientifici. La scientificità del marxismo, viceversa, individua quali siano le classi sfruttate che potenzialmente costituiscono il soggetto rivoluzionario, quali siano le condizioni oggettive in cui è possibile organizzarsi anziché rimanere dispersi. La formazione politica diviene una questione determinante per il comunismo (storicamente è questa l’importanza delle concentrazioni di lavoratori in fabbrica).
Sono queste le classi che hanno certamente interesse a lottare contro l’imperialismo, ma non perché è “imperialismo” bensì perché è capitalismo che opera su scala mondiale e sfrutta il lavoro salariato in tutti i paesi dominati. Ed è proprio perché sfrutta il lavoro salariato in codesti paesi che lì anche opprime il sottoproletariato povero, costringe al fallimento la piccola borghesia, impedisce alla borghesia nazionale di svilupparsi in capitalismo autonomo, corrompe i politici e i militari locali, ecc. Questo è il concatenamento dell’intero processo. Cosicché, quando il nazionalismo è usato dalle classi lavoratrici, a favore della nazione e per costruire delle alleanze, gli stessi movimenti nazionalisti nel terzo mondo provocano molte incomprensioni. Si fa ritenere che l’oppressione dipenda dalla diversa nazionalità, facendo sorgere movimenti di liberazione dagli stranieri, come negli anni sessanta; si può così finire per sostenere anche posizioni di tipo fascista che pretendono solo di impossessarsi dello stato nazionale. Se non si capisce quali siano le componenti del movimento di liberazione, quali forze lo dirigano, quali siano più vicine agli interessi del proletariato e della popolazione, col semplice riferimento al nazionalismo le cause dello sfruttamento e dell’oppressione non vengono rimosse. Un discorso analogo vale per il razzismo che, anziché costituire un momento di identità, diventa un elemento negativo, come per i neri in Usa, se non lo si collega alle condizioni lavorative e salariali. [Si riscontra, a es, che laddove le discriminazioni razziali nei confronti dei lavoratori neri sono minori anche i salari dei lavoratori bianchi sono più alti].
Occorre definire la forma sociale che si vuole instaurare una volta raggiunto il potere, sia essa comunista ma anche radicalmente progressista se queste sono le condizioni oggettive. Altrimenti ci si ritrova di nuovo sotto un sistema capitalistico. È per queste ragioni che la teoria del sistema-mondo, pur dichiarandosi insoddisfatta dell’analisi della dipendenza, non riesce ad andare oltre le sue categorie, in particolare verso quelle marxiste. Infatti Immanuel Wallerstein, direttore del centro di studi storici di New York intitolato a Fernand Braudel, ha una formazione “funzionalista”, avendo studiato con Talcott Parsons e Terence Hopkins. In sociologia l’impostazione funzionalista si caratterizza per studiare le parti nella loro relazione con l’intero sistema. La metodologia può sembrare corretta, tranne per il fatto che è astrattamente indeterminata, in quanto le parti sono definite come quelle in cui si articola il sistema e il sistema come ciò che è costituito dalle parti stesse. Nel sistema-mondo si definiscono le sue parti come un “centro” che coordina il sistema stesso e una “periferia” da esso dominata, tra le quali si colloca una “semiperiferia”; si discute di queste parti e delle loro relazioni territoriali, senza considerare affatto le classi: non c’è proletariato, non c’è borghesia, niente capitalismo, niente rivoluzione. La popolazione non esiste in questo genere di analisi. Vengono assunte le categorie della teoria borghese della modernizzazione, in cui gli elementi dell’analisi sono rappresentati dagli “stati nazionali”, proprio come nelle teorie della dipendenza.
L’imperialismo è visto solo come oppressione, per cui la lotta contro di esso è concepita in termini romantici ed eroici, da rivoluzione populista. In questo modo non si dà risposta alle cause di sviluppo e sottosviluppo, dell’arretratezza, delle differenze tra “nord” e “sud”, delle condizioni di vita delle popolazioni; ci si affida solo alle concezioni borghesi della geopolitica: ma che cos’è “nord” e che cos’è “sud”? Dal punto di vista della lotta di classe, quanto più sviluppato è il terzo mondo e le condizioni di vita delle loro popolazioni, tanto minori saranno le disuguaglianze e le tensioni tra società e stati, tanto minori le trame interimperialistiche: ed è precisamente questa la situazione che può favorire le trasformazioni di progresso per il proletariato mondiale.